video suggerito
video suggerito

Il piano Mattei parte dall’Algeria, ma qualcosa non torna: è buio su costi, ricavi e posti di lavoro

Dopo mesi di attesa, il piano Mattei del governo per l’Africa muove i primi passi. Davanti al ministro Lollobrigida, il colosso italiano dell’agricoltura BF ha firmato un accordo con il governo dell’Algeria, per la coltivazione di 36mila ettari di territorio, nell’area del Sahara del Paese nordafricano. Abbiamo spulciato tutti i dettagli del progetto, per capire se ci siano i segni dell’approccio “non più predatorio, ma cooperativo”, più volte proclamato dalla premier Meloni nel suo piano per lo sviluppo del continente africano.
A cura di Marco Billeci
75 CONDIVISIONI
(fonte Masaf)
(fonte Masaf)

Il piano Mattei per l'Africa del governo Italiano è stato a lungo e in parte è ancora un oggetto misterioso. Per mesi, tutto quello che abbiamo saputo a riguardo è che prendeva il nome dal fondatore di Eni Enrico Mattei e che doveva mettere insieme una serie di progetti di cooperazione allo sviluppo, con i Paesi del continente africano. Il punto chiave del piano – secondo la descrizione che ne ha fatto la premier Meloni  – dovrebbe essere un cambio di paradigma rispetto al passato: un approccio collaborativo e non più predatorio, diverso da quello che tradizionalmente ha avuto l'Occidente in Africa. Un bellissimo slogan che nessuno ha capito bene   come si sarebbe tradotto in pratica. Ora che almeno la prima pietra del programma è stata posata, però, dovremmo avere finalmente modo di verificarlo. Ma guardando i dettagli del primo progetto, messo in campo nell'ambito del piano Mattei, molti dubbi su quanto il nuovo approccio sia davvero diverso dal passato rimangono irrisolti.

Il 6 luglio scorso il ministro Francesco Lollobrigida è volato in Algeria per benedire l'accordo tra BF International (parte del colosso italiano dell'agricoltura BF Spa) e il governo algerino. L'intesa prevede una concessione di 36mila ettari nella zona sahariana del Paese, per realizzare un'estesa coltivazione di cereali e legumi. Nell'area dovrebbero sorgere inoltre impianti di trasformazione e di stoccaggio, così da garantire l'attivazione di un percorso completo, dai semi fino ai prodotti finiti (pasta e non solo) destinati al consumo interno dell'Algeria. La gestione della concessione sarà in mano a una società italoalgerina. BF e altri partner industriali italiani offriranno un progetto "chiavi in mano", che assicuri la materia prima, l'irrigazione, i mezzi di produzione e etc..

Fin qui i fatti. Cerchiamo di capire adesso quanto quest'iniziativa sia davvero libera da tratti di cosiddetto "neocolonialismo". Intanto dobbiamo premettere che il testo dell'accordo non è stato reso pubblico, quindi non ne conosciamo tutti gli aspetti. Per tracciare il quadro, allora, abbiamo provato a mettere insieme le informazioni fornite nei comunicati ufficiali e nella conferenza stampa tenuta dalle autorità algerine a margine della firma, quelle comparse negli articoli della stampa italiana e africana e altri elementi che abbiamo raccolto, da fonti del gruppo Bf.

Dai prezzi ai ricavi, i nodi del progetto algerino

Prima di tutto, dobbiamo registrare la grande soddisfazione per l'intesa, manifestata dal governo dell'Algeria. Il ministro dell'Agricoltura Youcef Cherfa ha spiegato che il progetto rientra in un programma più ampio, destinato a aumentare la superficie agricola del Sud del Paese di  500mila ettari, bonificando aree prima considerate non utilizzabili, con l'obiettivo di raggiungere l'autosufficienza alimentare nel 2027.  Per Lollobrigida, "questo progetto è quanto di più lontano esista dal neocolonialismo, perché le terre restano nel pieno possesso dell’Algeria". Vero, ma la concessione dei 36mila ettari di terreno  – garantita alla società che gestirà l'impresa – è definita "di medio lungo periodo", quindi andrà ben oltre il 2028, data in cui il sistema dovrebbe entrare a regime. E la proprietà della joint venture è per il 51 percento in mano all'Italia, con BF a fare da capofila, insieme ad altri investitori privati e istituzionali, di cui al momento non è stata svelata l'identità. Il restante 49 percento invece è in possesso del fondo sovrano per gli investimenti dell'Algeria.

Altro punto fondamentale che viene sottolineato per garantire l'intento "non predatorio" dell'iniziativa è il fatto che tutti gli alimenti prodotti saranno destinati al mercato locale. In realtà Lollobrigida ha dato una sfumatura leggermente diversa alla questione, ricordando come "L’Algeria ci è stata vicina garantendoci l’energia quando si è reso necessario rivedere le relazioni con la Russia" e sostenendo che "questo un domani potrà accadere anche con il cibo", aprendo quindi alla possibilità di esportare in Italia una parte delle derrate, in futuro.   Diversi media di lingua araba inoltre hanno riportato una dichiarazione del ministro dell'Agricoltura algerino per cui: "il 60 percento del grano duro prodotto nell’ambito di questo progetto sarà destinato direttamente alla riserva strategica, mentre il 40 percento alla conversione e all’esportazione”. Parole che sembrano contraddire i comunicati ufficiali di parte italiana, per cui tutta la produzione sarebbe volta solo al consumo interno.

Anche ammettendo che tutto il prodotto sarà  riversato solo in Algeria, non sono chiare le modalità con cui questo avverrà. In altri progetti simili, ma di scala minore, come quelli lanciati da BF insieme a Coldiretti e Consorzi Agrari d’Italia in alcuni Stati africani (Angola, Ghana, Egitto e la stessa Algeria) sono state annunciate delle clausole. Ad esempio, quella per cui  i governi locali si impegneranno ad acquistare la maggior parte del raccolto (fra il 50 e 80 percento) a prezzi definiti e la parte restante a prezzi di mercato, oppure questo è ceduto ai privati. In questo caso, secondo quanto appreso da fonti della holding italiana, non risultano allo stato caveat simili, ma si dice che i prodotti finiti saranno venduti liberamente sul mercato. Pare di capire che almeno per ora non sia previsto nessun meccanismo di controllo dei prezzi, spesso necessario a raggiungere anche le fasce più povere della popolazione. Senza ulteriori dettagli sulla filiera di distribuzione, è difficile allo stato attuale misurare quanto il progetto sia davvero equo da questo punto di vista.

Poco chiaro è anche chi e quanto guadagnerà dall'operazione. A fronte di un investimento complessivo da 420 milioni, che dovrebbe essere versato al 51 da parte degli investitori italiani e al  49 percento da parte del fondo sovrano algerino,  come da divisione della proprietà della società di gestione del progetto. Non è stato esplicitato però se anche la divisione dei ricavi seguirà questa ripartizione. Abbiamo chiesto a BF se ci fossero dettagli in merito, ma non ce ne sono stati forniti.

Lollobrigida smentito sui nuovi posti di lavoro

Infine c'è l'aspetto occupazionale. In un'intervista al Corriere, il ministro Lollobrigida ha sostenuto che per il suo omologo algerino, i posti di lavoro complessivi creati saranno circa 12mila 500, tra determinati e indeterminati. In realtà, la stima da parte del governo algerino è di quasi la metà: 6700, di cui 1.600 a tempo indeterminato e circa 5.100 a tempo determinato. Attenzione però, a quanto risulta a Fanpage.it, questi 6700 nuovi occupati non deriverebbero solo il progetto italiano, ma dall'interno piano di bonifica e coltivazione di 500mila ettari di terre Sahariane.

In realtà, spiegano fonti di BF, il sistema di coltivazione che verrà attuato prevede l'utilizzo di macchinari moderni, che non necessitano di un largo utilizzo di manodopera, ma di figure specializzate. Allo stesso modo, per le fasi preparatorie del progetto, dalla prima della costruzione dei pozzi e dei sistemi di irrigazione in poi, servono soprattutto professionisti tecnici, che  nel periodo iniziale arriveranno dalle aziende italiane coinvolte nelle attività.  Almeno nei primi anni di vita del progetto, dunque, pare di capire che l'utilizzo di manodopera locale sarà residuale. Sotto questo aspetto, il lato cooperativo dell'iniziativa sembra affidato soprattutto ai  programmi per la formazione di futuri professionisti algerini ad alta specializzazione in campo agricolo, che BF prevede di mettere in campo nello Stato africano.

La conclusione della nostra analisi non vuol essere quella di dare una patente di buona o cattiva cooperazione, al progetto italoalgerino. Da un lato, è assolutamente normale che le nostre aziende  vadano in Africa non per fare "beneficienza", ma per mettere in atto iniziative che abbiano anche un senso imprenditoriale e un ritorno economico di qualche tipo. D'altro canto, se l'iniziativa si rivelasse una pura operazione di mercato, non si capirebbe bene a cosa serva il ruolo di regia del governo italiano e di cosa consti il cambio di paradigma, nel modello di approccio con gli Stati africani. Il successo dell'operazione si giocherà quindi su cosa e quanto lascerà nel medio lungo periodo sui territori e alle popolazioni del luogo. Al momento, possiamo dire che gli elementi a disposizione non permettono di parlare di una rivoluzione, rispetto a iniziative simili messe in campo in passato. Ma il piano Mattei è ai primi passi, i progetti in campo ancora pochi e solo la loro effettiva realizzazione potrà dare la risposta alla scommessa di Giorgia Meloni per l'Africa.

75 CONDIVISIONI
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views