“La chiusura, talvolta non adeguatamente motivata, delle frontiere da parte di alcuni Stati e il diffuso rifiuto di condividere gli oneri di questa sfida epocale mettono a rischio la tenuta dell’Unione”. Parte da questa considerazione la lettera con la quale il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha inviato a Donald Tusk, Presidente del Consiglio Europeo, e a Jean Claude Juncker, Presidente della Commissione Europea, il “migration compact”, ovvero il piano italiano per la gestione dei flussi migratori e il superamento della fase emergenziale. Il nostro Governo lo ha presentato come un “contributo di pensiero” per “migliorare l’efficacia delle politiche migratorie esterne della Ue” e lo ha sottoposto alle valutazioni delle istituzioni europee, affinché possano magari integrarlo nel complesso dei provvedimenti presi negli ultimi mesi. È bene sottolineare che il piano non mette in discussione il (pessimo a nostro avviso) accordo raggiunto con Ankara, ma che si occupa sostanzialmente del "futuro oltre l'emergenza", con un occhio particolare ai flussi che interessano il nostro Paese.
Al di là delle parole di circostanza utilizzate da Renzi nella lettera, traspare infatti la preoccupazione italiana per gli effetti di breve e medio termine dell’accordo con la Turchia. Il punto è chiarissimo, nella lettura italiana: se il piano che coinvolge Ankara resta "isolato", se cioè non si affianca una visione più ampia e non si prendono provvedimenti più incisivi per prevenire l'afflusso dei profughi, il sistema può collassare sulla rotta del Mediterraneo Centrale, con il ripresentarsi dell'emergenza nel Canale di Sicilia. Del resto, che una volta blindata la rotta balcanica i profughi preferiscano "tentare la sorte in mare" piuttosto che finire in un campo turco senza nemmeno la speranza di poter raggiungere il Nord Europa, è cosa pacifica.
Il punto (e il limite intrinseco anche del piano italiano) è che siamo sull'orlo del collasso, anche adesso. In Grecia al momento vi sono ancora 46mila persone, che vivono in 31 centri di accoglienza allestiti in tutta fretta, senza la possibilità di fare richiesta di asilo e tra gravi deprivazioni materiali. Persone in attesa di essere riportate in Turchia, ma che sono già state “tradite” dall’Unione Europea che a settembre aveva preso l’impegno di redistribuire 66.400 persone tra gli Stati membri: quel piano, celebrato come un trionfo (anche dal nostro Governo), è servito a sistemare l’enorme cifra di 615 richiedenti asilo. Sì, 615 su 66.400.
L'accordo con Ankara, che presenta seri problemi di "legalità" oltre che di funzionalità, serve sostanzialmente solo a rinviare il problema e ad accontentare gli Stati interessati dalla rotta balcanica (e, in fondo, anche la stessa Germania, che dopo i roboanti annunci della Merkel sta facendo i conti con la complessità di mettere a regime un piano di accoglienza in tempi rapidi). L'Italia, che ha già risposto a diverse sollecitazioni negli anni scorsi, è però nella posizione di dare lezioni e di indicare la strada: il nostro modello di accoglienza funziona (certo, al netto di errori, lacune e speculazioni), persino a prescindere dal "meccanismo di elusione" che è al centro del braccio di ferro diplomatico con l'Austria, la determinazione con la quale, anche solo formalmente, l'esecutivo difende i principi dell'accoglienza e del soccorso in mare è un motivo di vanto (e non era per nulla scontata), la fermezza del Dipartimento dell'Immigrazione è da ascrivere alla casella "buone pratiche" (al netto di alcune scelte imbarazzanti delle Prefetture, si veda il caso Napoli).
Insomma, devono ascoltarci, o almeno dovrebbero. Certo, poi dipende da ciò che diciamo, dai contenuti che proponiamo, dalle ricette cui abbiamo lavorato. Anche perché il migration compact più che un piano strutturato e completo, è una summa delle linee guida, dei consigli che il Governo indirizza alle istituzioni europee, nella speranza che, per buonsenso o necessità, vengano recepiti almeno alcuni aspetti (controllo frontiere e rimpatri, su tutti). E dunque ha senso solo se l'Italia non rinnega sé stessa, accettando per convenienza l'assurdo accordo fra Ue e Turchia, sulla pelle di decine di migliaia di profughi.
Cosa contiene il Migration Compact
La prima considerazione su cui si sofferma il MC è relativa alla duplice tipologia di flussi: profughi della guerra civile siriana e richiedenti asilo sulla rotta balcanica, migranti "economici" e una parte residuale di profughi delle guerre nell'Africa centrale, sulla rotta del Mediterraneo Centrale e Occidentale. E la seconda, quasi consequenziale, è che le migrazioni, se ben gestite, possono rappresentare una opportunità di crescita e sviluppo, tanto per l'Europa quanto per i Paesi terzi.
Occorre però partire dalla valutazione degli errori commessi nel passato e mettere a fuoco cosa non ha funzionato nei "patti" siglati nel corso degli ultimi mesi. L'analisi italiana è netta: manca la visione d'insieme, manca una strategia globale che guidi "tutte le iniziative esistenti e gli strumenti già adottati" e che sia centrata sulla situazione nei Paesi africani di origine e di transito dei flussi.
Ed è questo il primo vero "suggerimento": identificare i paesi "chiave" e renderli partecipi di un programma chiaro e definito di sviluppo, investendoli della responsabilità della gestione dei flussi e premiando con investimenti e risorse i partner virtuosi. Per il conseguimento di tale obiettivo l'Europa potrebbe mettere in campo:
- Un piano di investimenti sulle infrastrutture, da concordarsi con con i Paesi interessati e da realizzarsi in stretta collaborazione con la Ue;
- una specie di Eurafrica Bond, ovvero un modo per facilitare l'accesso delle nazioni africane al mercato dei capitali e favorire le iniziative finanziarie;
- un patto per la cooperazione alla sicurezza, che sostanzialmente si fonderebbe sulla messa a sistema di un meccanismo di "co-gestione" delle migrazioni, dal controllo delle frontiere all'amministrazione della giustizia, fino ad arrivare alla gestione dei campi di accoglienza e delle vie di transito (sempre nel rispetto delle convenzioni internazionali);
- una nuova organizzazione della "migrazione legale", che segua il Tampere process e garantisca agli Stati che accettano l'accordo quote per lavoratori e studenti (si parla di progetti Erasmus Plus), oltre che informazioni sulle possibilità di lavoro e strumenti di formazione "in loco", affidati a quelle aziende europee interessate a impiegare manodopera nelle loro filiali estere;
- un programma di ricollocamento, "as compensation" per quegli Stati che accetteranno di mettere in piedi centri per la richiesta di asilo che rispettino gli standard internazionali;
In cambio, l'Europa chiederebbe ai Paesi africani:
- L'effettivo controllo delle frontiere e la conseguente diminuzione dei flussi migratori. A tal fine non è escluso che dalla Ue arrivino strumenti e risorse per implementare il controllo delle frontiere e per le stesse attività di "search and rescue" dei migranti;
- maggiore collaborazione per le espulsioni e riammissioni, grazie all'utilizzo di "funzionari di raccordo" investiti di maggiori poteri. Gli Stati africani si impegneranno poi ad accettare rimpatri attraverso voli charter e a fornire la massima collaborazione per la schedatura dei migranti;
- la messa in cantiere di un sistema di accoglienza e gestione delle partenze da parte dei Paesi di transito, che preveda anche la possibilità da parte dei migranti di fare richiesta di asilo politico, con il supporto di funzionari dell'Unione Europea;
- un impegno deciso contro i trafficanti di uomini.
La Guardia di frontiera europea e i costi dell'operazione
Abbiamo già parlato in passato dell’entrata in funzione della European Border Guard, che nella proposta italiana sarebbe chiamata a sviluppare un piano per i rimpatri, finanziato interamente dal budget europeo. Il lavoro dell’agenzia non escluderebbe singoli accordi fra gli Stati, ma in qualche modo li andrebbe ad affiancare, fatto salvo il rispetto delle quote. Allo stesso tempo la EBG si occuperebbe anche di formare, equipaggiare e assistere le forze di polizia degli Stati della cintura subsahariana. In un contesto simile, particolare attenzione dovrà essere prestata alla situazione della Libia, il principale Paese di transito nelle rotte verso l’Italia. Per questo il piano prevede un protocollo d’intesa con il governo libico, che sia un passo avanti nelle relazione diplomatiche con la Ue (in sostanza, l’Ue si impegna ad aiutare il Governo nel processo di consolidamento del proprio controllo sul territorio). La Ue potrebbe anche offrire alla Libia “security sector support”, con una missione apposita (si parla di “Civilian CSDP mission) che abbia come focus il controllo delle frontiere, l’amministrazione della giustizia e la lotta al terrorismo.
Uno sforzo notevole, che potrebbe essere finanziato sia attraverso la riprogrammazione della spesa in materia di politiche migratorie (EDF, DCI, ENI), sia attraverso la creazione di Eurobond specifici, sia infine tramite un nuovo fondo per gli investimenti nei paesi terzi, che servirebbe anche ad attrarre investitori privati.
Il ‘no' di Berlino
La Germania ha fatto sapere di essere contraria alla proposta italiana di ricorrere agli eurobond per risolvere la crisi migratoria. "Il governo tedesco non vede alcuna base per un finanziamento comune dei debiti per le spese degli stati membri per la migrazione", ha dichiarato il portavoce del governo Steffen Seibert, secondo cui vi sono altri strumenti disponibili nel bilancio europeo. La Germania, ha ribadito, punta a una soluzione complessiva europea che riguardi anche la rotta del Mediterraneo ed "esaminerà in modo approfondito" le proposte presentate da Renzi "per una strategia esterna completa sulla migrazione".
Al "no" arrivato dalla Germania ha replicato il presidente del Consiglio Matteo Renzi, intervistato dal Tg1. "L'Ue deve farsi carico del tema, noi abbiamo proposto gli eurobond, bene Juncker. Se la Merkel e i tedeschi hanno soluzioni diverse ce le dicano, non siamo affezionati a una soluzione. Ma sia chiaro che il problema lo deve risolvere l'Ue tutta insieme. L'Italia è tornata dalla parte di chi propone soluzioni non di chi urla", ha detto il premier.