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Il Pd e il “gioco delle tre carte” sui voucher: e se l’avesse fatto Berlusconi?

Con un colpo di spugna il governo ha prima cancellato il referendum abrogativo sui voucher e magicamente dopo qualche mese sta cercando di reintrodurre i buoni lavoro attraverso un emendamento alla “manovrina” correttiva. Il Pd torna nuovamente a esprimere l’arroganza che nel corso degli ultimi anni ha caratterizzato la maggioranza di governo, pronta a tutto pur di tacitare opposizioni e dissidenti.
A cura di Charlotte Matteini
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Il Partito Democratico, mediante un espediente politico, sta cercando di reintrodurre i famigerati voucher nell'ordinamento italiano, dopo averli cancellati con un decreto d'urgenza solo pochi mesi fa e fatto saltare il referendum abrogativo indetto dalla Cgil, scatenando l'ira di Articolo 1 – Mdp che per voce dell'onorevole Arturo Scotto ha minacciato di uscire dalla maggioranza. Raccontata così, di primo acchito, la questione potrebbe sembrare non esattamente di primaria importanza, la solita scaramuccia tra grandi partiti di maggioranza e movimenti politicamente più giovani e più deboli, ma come al solito c'è sempre un "ma" e in questo specifico caso perdere qualche minuto ad analizzare il comportamento del Partito Democratico e dell'esecutivo è necessario per comprendere a fondo quello che in un impeto di creatività mi verrebbe da ribattezzare come il "metodo Pd". Che cos'è questo fantomatico "metodo Pd"? Per rispondere a questa domanda è necessario fare un breve excursus temporale.

L'anno scorso la CGIL promuove una serie di referendum abrogativo e raccoglie oltre tre milioni di firme con l'intenzione di presentare un quesito referendario per l'abolizione dei voucher. Nel gennaio 2017 il quesito referendario viene accolto dalla Consulta che lo ritiene ammissibile, a differenza di quello sull'articolo 18, e qualche settimana dopo il governo emana il decreto che fissa al 28 maggio la data del referendum abrogativo. Tempo poche settimane, e siamo nel marzo 2017, sempre lo stesso Governo emana un decreto d'urgenza per abrogare i voucher dall'ordinamento a partire dal 2018, di fatto neutralizzando il referendum, che infatti non si è svolto.

“Dividere nei prossimi due-tre mesi il Paese tra chi magari strumentalmente demonizza lo strumento, e chi riconoscendone i limiti e avendo la chiara intenzione di riformarlo, sarebbe stato costretto a difenderlo, sarebbe stato un grave errore per l’Italia. La nostra decisione azzera e in un certo senso apre una fase nuova", ha dichiarato Gentiloni in conferenza stampa motivando l'abolizione della norma che regolava i voucher. Insomma, per evitare un referendum divisivo – divisivo esattamente quanto qualsiasi tipo di consultazione elettorale aggiungo io, ma credo sia lapalissiano sottolinearlo – il governo ha preferito aggirare l'ostacolo, neutralizzandolo.

Passano le settimane e di voucher si torna a discutere, in particolare si parla di una norma per la reintroduzione dei buoni lavoro ad esclusivo uso delle famiglie, una soluzione che pareva mettere bene o male tutti d'accordo, dal Pd ai partiti della sinistra più radicale fino ai sindacati. Il 25 maggio, però, il colpo di scena: il capogruppo del Pd Ettore Rosato annuncia la presentazione di un emendamento alla manovra correttiva che prevede l'estensione dei voucher alle microimprese con meno di 5 dipendenti assunti a tempo indeterminato, e qui nasce la crisi in maggioranza: Mdp minaccia di uscire dalla maggioranza e gli orlandiani non votano il provvedimento in commissione alla Camera.

Ora, per capire a fondo la questione occorre togliere di mezzo per un attimo l'oggetto del contendere e analizzare il metodo che ha portato allo scatenarsi della crisi politica: sostanzialmente per paura di una sconfitta al referendum si è preferito abolire i voucher per mezzo di un decreto d'urgenza approvato in fretta e furia per poi provare a rimettere in campo una versione annacquata e depotenziata degli stessi buoni lavoro con un emendamento alla cosiddetta "manovrina".

Insomma, il problema sostanzialmente non è la reintroduzione dei voucher, ma non è altro che una questione di metodo che evidenzia ancora una volta l'arroganza della maggioranza, di cui ebbi già modo di parlare in occasione della fiducia sull'Italicum. Ieri come oggi, il metodo Pd è rimasto lo stesso: pensare sia saggio e sano forzare i processi democratici di fatto defraudando gli elettori del proprio diritto di voto e i parlamentari del diritto di discutere i provvedimenti in Aula, esautorandoli e umiliandone il ruolo. Di fatto sembra quasi che il Pd consideri un'inutile perdita di tempo il confronto tra le parti, non esattamente un approccio democratico a dispetto del nome. Ieri come oggi, il ricatto non muta: "Vi prenderete la responsabilità di far cadere il governo" disse Renzi annunciando la fiducia sull'Italicum, stessa mantra pronunciano i renziani ora nei confronti dei dissidenti contro i voucher.

Dato che il decreto d'urgenza ha di fatto abolito i voucher dal prossimo anno, se davvero si volessero reintrodurre i buoni lavoro nell'ordinamento basterebbe presentare in commissione un provvedimento ad hoc e discutere della misura in Parlamento, per arrivare poi all'approvazione delle nuove norme, ma far saltare un referendum sottoscritto da milioni di cittadini per paura dell'esito per poi a pericolo scampato infilare la norma nella "manovrina" che al 99% verrà approvata con la fiducia è davvero una presa in giro. Ma non nei confronti delle opposizioni, ma degli elettori. Di divisivo, in tutta questa vicenda, c'è solo l'atteggiamento del partito di governo, altro che il referendum. Divisivo è il continuo ricorso alla fiducia, divisivo è anche il trattamento riservato alle opposizioni e ai cosiddetti dissidenti, un atteggiamento che non fa altro che incendiare il clima politico rendendolo tossico. Un atteggiamento, peraltro, che non paga in termini elettorali.

La domanda fondamentale che al momento non trova risposta alcuna è una: perché il governo ha così tanta paura dell'espressione democratica?

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Milanese, classe 1987, da sempre appassionata di politica. Il mio morboso interesse per la materia affonda le sue radici nel lontano 1993, in piena Tangentopoli, grazie a (o per colpa di) mio padre, che al posto di farmi vedere i cartoni animati, mi iniziò al magico mondo delle meraviglie costringendomi a seguire estenuanti maratone politiche. Dopo un'adolescenza turbolenta da pasionaria di sinistra, a 19 anni circa ho cominciato a mettere in discussione le mie idee e con il tempo sono diventata una liberale, liberista e libertaria convinta.
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