L'incipit migliore è senza dubbio quello di Pippo Civati: "Premessa fondamentale: il clima è surreale. Renzi ha vinto le primarie, gli altri le hanno perse male e lo spettacolo di queste ore è tra l'autolesionismo collettivo (e di corrente) e la follia integrale". Una fotografia che ha il merito di cogliere il fatto che, più che sulla legge elettorale, la frattura sia fra due (ma anche tre, quattro) idee di partito contrapposte e che a sanguinare siano ancora le ferite aperte dalle primarie (per la verità l'emorragia è cominciata dal Renzi vs Bersani del 2012). Lo nota anche Stefano Menichini sul Post: "C’è una sproporzione evidente, che non può sfuggire agli interessati, tra il calore polemico che si è sprigionato nel Pd e la materia del contendere per come viene presentata". Certo, la legge elettorale resta terreno di scontro, nonché bivio fondamentale al quale si confronteranno "due partiti trasversali, quello del rilancio del bipolarismo, possibilmente in una versione più civile e produttiva di quella vista all’opera nell’ultimo ventennio […] e quello della restaurazione proporzionalista o, se vogliamo dirlo con termini meno negativi, del ripristino di una democrazia dei partiti".
Ma la vera battaglia si gioca su altre questioni, che Renzi cerca scientemente di far uscire dalle stanze del Partito Democratico. Se in effetti il correntismo è stato uno dei limiti del partito in passato, non sfugge come l'impostazione dirigista di Renzi abbia completamente ribaltato il paradigma in base al quale solo la "pacificazione correntizia", fondata su spartizioni e contentini di varia natura, potesse garantire la gestione dei periodi post congressuali. Un cambio di marcia, incontestabile, che ha avuto l'effetto di spiazzare completamente la minoranza del partito. Che è risultata infatti debole al punto da spaccarsi nel momento in cui occorreva reagire con compattezza all'attacco renziano ai due (presunti) punti di riferimento, nel Governo e negli organi di partito. Un dirigismo del quale non ha senso stupirsi, proprio perché da sempre legato alla proposta politica di Matteo Renzi ed alla sua comunicazione, non solo in campagna elettorale. Ma che ha trovato una formidabile legittimazione nel plebiscito delle primarie, nei 2 milioni di voti (non proprio) che, nella lettura renziana, gli hanno dato il via libera per cambiare completamente i connotati al partito.
Un mandato pieno che Renzi interpreta come un lasciapassare. E che gli consente sostanzialmente di fregarsene dei formalismi, di evitare le mediazioni e puntare al "massimo della concretezza". Anche perché, dall'altra parte della barricata, si continua a non cogliere la portata del cambiamento cui mira il segretario e si continua a leggere la sua azione politica con le vecchie coordinate della "dinamica di partito". E, invece di discutere sul "merito" del mandato che i militanti avrebbero conferito a Renzi (siamo davvero sicuri che gli abbiano chiesto di parlare con Berlusconi? Di tenere in pugno Letta, logorandolo giorno dopo giorno? Di mettere nero su bianco una legge elettorale che è il gemello buono del Porcellum?), ci si offende, si fa appello alla correttezza formale o si è costretti a piegare il capo in nome di una non meglio precisata "disciplina di partito". Con l'enorme contraddizione che sottolinea Olita: "Per anni, l’arroganza di quel non doversi mettere in discussione perché si era classe dirigente “a prescindere” li ha resi antipatici nel senso letterale, persone con cui non si può condividere alcun patire. […] Verrebbe da dire (come alcuni in verità fanno), dopo aver visto per troppo tempo una maggioranza che ora è minoranza disprezzare le opinioni minoritarie: “v’accorgete solo ora che non è quello il modo di stare in un partito?"
Se non fosse sufficientemente chiaro: Renzi di tutte le litanie preconfezionate della politica e dei partiti semplicemente se ne frega; del partito che ha ereditato salverebbe poco o nulla; considera il parlamentarismo poco più di un impiccio; declina il rinnovamento generazionale su pure basi meritocratiche (le sue, sia chiaro) e non secondo logiche da spoil system; crede di poter fare anche scelte apparentemente impopolari (come l'incontro con Berlusconi) purché foriere di un risultato certo; non ha fretta ma non reciterà nemmeno per un solo secondo la parte del comprimario. Pretendere che dopo la vittoria delle primarie Renzi avrebbe cambiato il suo modo di operare e di rapportarsi al partito (e perché mai, poi?) era ipotesi tanto inconsistente quanto non realizzabile. Ha vinto, ora vuole ricordarlo ogni giorno. Ha vinto, ora non mollerà di un centimetro (si veda la decisione di ricandidarsi a Sindaco di Firenze, scelta che in altri mondi sarebbe stata oggetto di feroci polemiche). Ha vinto, vuole continuare a farlo ed è convinto di riuscirci alle sue condizioni. E la teoria secondo la quale un "partito si dirige, non si comanda" si scontra con la concezione della politica di Renzi (e non solo). Anche perché, a ben guardare, il Sindaco di Firenze ha dalla sua la critica ad anni di sciagurato immobilismo, di fallimenti, di burocrazia avvilente e dirigenti impresentabili. E anche con una legge elettorale discutibilissima e con un progetto di revisione istituzionale raffazzonato sembra un alieno rispetto a chi lo ha preceduto.