Il 17 aprile i cittadini saranno chiamati a votare per il cosiddetto "referendum sulle trivelle", che chiede di abrogare il comma 17 dell'articolo 6 del Codice dell'ambiente (dlgs n. 152 del 2006) nella parte in cui prevede che le trivellazioni nelle acque territoriali italiane – cioè quelle che si trovano entro le 12 miglia dalla costa – continuino fino a quando il giacimento lo consente. È, lo dicono i dati, un vero e proprio referendum fantasma e probabilmente mai si era registrato un livello così basso di copertura mediatica e di informazione ai cittadini. Le cause del “disinteresse” rispetto alla consultazione referendaria sono diverse e non facilmente riconducibili alla sola volontà “politica” dell’esecutivo o dei partiti favorevoli al rinnovo automatico delle concessioni. In gioco vi sono interessi economici e “giurisdizionali”, lotte intestine al PD e pressioni di multinazionali, cavilli burocratici e normative inadeguate, l’irrisolto conflitto fra produzione e ambientalismo, i limiti del “progetto” referendario, azzoppato peraltro dalla decisione della Consulta di dichiarare ammissibile solo uno dei quesiti.
Ai limiti “oggettivi” nell’ottica del raggiungimento del quorum si è poi aggiunta la posizione presa dalla segreteria del Partito Democratico che, oltre a invitare in maniera esplicita i cittadini a non recarsi alle urne, ha prodotto anche del materiale informativo per criticare l’impianto del referendum e difendere il sistema attualmente in vigore. Il video è eloquente:
Una posizione del genere, per di più nemmeno discussa in direzione nazionale, non poteva che sollevare critiche e perplessità, anche in considerazione del fatto che a promuovere la consultazione referendaria sono state Regioni a guida PD. Speranza, ex capogruppo alla Camera, ha preso le distanze: “Il primo partito del Paese al referendum di aprile invita ad andare al mare? Credo sia un errore grave”. E Bersani, ex segretario, ha calcato la mano: “Non voglio credere che quella sia la parola definitiva, invitare gli italiani a non andare a votare un referendum proposto da otto consigli regionali dove il Pd è maggioranza sarebbe una cosa incredibile […] Ma come si fa a questo punto a dire alla gente di stare a casa? Vogliamo arrivare al ridicolo?”.
L’invito all’astensione è stato stigmatizzato anche da altre parti: Sel ha parlato di “fine della democrazia” quando si invitano i cittadini “a non utilizzare l’ultimo strumento di democrazia rimasto nelle mani del Popolo Sovrano”; Rodotà ha lanciato l’allarme sul “ridursi degli spazi di partecipazione istituzionale produce reazioni extra istituzionali: quando si demonizza il referendum, che sia proposto da una raccolta firme o dalle regioni non cambia, si sta dicendo ai cittadini che è inutile rivolgersi alle istituzioni e alla politica”; Civati ha parlato di "clamoroso errore di metodo democratico".
Eppure, l'astensione resta scelta legittima e rispettabile. Che dovrebbe prescindere, quasi per definizione, da considerazioni sul merito di questo quesito referendario. In molti per contestare una simile posizione fanno riferimento all'articolo 48 della Costituzione, che parla espressamente di "esercizio del voto come dovere civico". Per la verità, che il riferimento sia prima di tutto alle elezioni per le assemblee rappresentative è ipotesi condivisa da molti analisti, anche in considerazione della "previsione del quorum" per i referendum, stabilita appunto dall'articolo 75 della Costituzione.
Esiste cioè anche una sorta di diritto al “non – voto”, che consisterebbe nel declinare la richiesta di esprimersi sui quesiti referendari e che non avrebbe per questo “conseguenze morali”. L’esercizio tale opzione non può costituire una pecca, una vergogna, soprattutto nella misura in cui risulta determinante per lo stesso processo democratico. L'obiezione più comune a tale ragionamento suona più o meno così: il non voto non è un diritto nella misura in cui vincola la possibilità di espressione di altre persone. Ma è evidente che è lo stesso istituto referendario a essere "conformato" in tal modo e, in generale, è il modello della democrazia rappresentativa che tutela anche chi decide di non esprimere la propria opinione nelle singole consultazioni elettorali. O si agisce modificando tale istituto (e ci sono proposte concrete, come nella riforma costituzionale sulla quale i cittadini saranno chiamati a esprimersi…senza quorum, stavolta), o si lavora per il superamento di questo modello di democrazia rappresentativa (aprendo la strada alla democrazia diretta, o studiando funzionali modelli di democrazia deliberativa), o si accetta l'idea che l'astensione, ripetiamo, consapevole e informata, possa essere una scelta politica, legittima e rispettabile. Anche, anzi soprattutto, quando il cittadino ritenga di non essere in grado di esprimersi su un quesito, magari a causa della sua complessità o lontananza dai propri interessi.
L’esistenza, insomma, di un’astensione consapevole e informata, non mina il processo democratico, ma in qualche modo lo completa e in fondo lo legittima anche. Il punto semmai è fornire tutti gli strumenti ai cittadini per questo tipo di valutazione.
E non fare scelte di comodo, strumentali o puramente propagandistiche. Vero?