Come vi abbiamo raccontato, la rivoluzione di Matteo Renzi sul mondo del lavoro per il momento si è fermata ad un decreto che ha provocato un vero e proprio terremoto di reazioni. Già, perché nell'attesa di vedere nero su bianco il testo completo dell'ormai "leggendario" Jobs Act (che Renzi aveva anticipato quando a Palazzo Chigi ancora soggiornava Letta, riproponendolo poi alla Camere durante il dibattito sulla fiducia e promettendo poi di presentarlo in tempo per l'incontro con la Merkel), quello che abbiamo è il decreto frutto della collaborazione con il ministro del lavoro Poletti. Un decreto che propone alcune innovazioni e cambiamenti ai contratti a progetto, lascia immutata la "giungla dei contratti", non contiene aperture al fantomatico "contratto unico a tutele crescenti" (su cui sembrava in un primo tempo orientato Renzi), ripercorre alcune controverse misure di Elsa Fornero e prova a fare ordine sulla dibattutissima questione dell'apprendistato. Sempre nell'attesa di capire cosa combinerà il Governo con la legge delega per la riforma degli ammortizzatori sociali (questione almeno di pari importanza), a sorprendere è il modo in cui è stato accolto il provvedimento della coppia Renzi – Poletti.
Al di là delle valutazioni di merito (che rimandano ad esigenze / ruoli / impostazioni ideologiche differenti), gli analisti sono tutti concordi: nel bene o nel male, questo è un decreto che alimenta la precarietà del lavoro e, per dirla con Pini – Romano (la cui analisi su Micromega merita di essere letta fino in fondo), determina una situazione per la quale "il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato cessa di essere il contratto preminente, e deve misurarsi con i contratti a termine di durata triennale (a tempo determinato standard e somministrazione), liberati da qualsiasi motivazione di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro". Il punto è che l'obiettivo indicato è quello di contribuire alla ripresa occupazionale, garantendo alle aziende "semplificazione" e flessibilità: dunque si possono liquidare come "effetti collaterali" di bassa rilevanza ad esempio la "crescita dell'instabilità del rapporto di lavoro, la svalorizzazione del lavoro come realizzazione personale, la crescita della dispersione salariale e via discorrendo".
Per capire quanto gli analisti siano concordi nel sostenere la tesi della "precarietà per decreto e per sempre" (per citare l'analisi di Alleva sul Manifesto), si prenda ad esempio la raccolta di opinioni che gli stessi Pini e Romano in parte fanno (l'abbiamo arricchita di ulteriori citazioni):
– Tito Boeri e Pietro Garibaldi su LaVoce: "Una norma di questo tipo di fatto introduce un periodo di prova di 3 anni in cui il datore può licenziare senza pagare un’indennità, senza dare un minimo di preavviso e senza neanche motivazione. Un periodo di prova così lungo spiazza qualsiasi altra tipologia contrattuale nel periodo di inserimento".
– Piergiovanni Alleva: "Dal punto di vista del lavoratore significa cercare ogni tre anni un diverso datore di lavoro, e ciò all’infinito, concedendo a Dio la dignità, e rassegnandosi ad una totale sottomissione a ricatti di ogni tipo, sperando di essere confermato a tempo indeterminato una volta o l’altra. È evidente che così, lo stesso datore di lavoro nel suo complesso diventerà una sorta di favola non traducibile in realtà".
– Chiara Saraceno su Ingenere: "Se questo è il modo di investire sui giovani, di offrire loro un orizzonte di vita meno incerto dell’attuale, mi sembra che non ci siamo proprio. Perché sono loro i primi cui si applicherà questa doppia estensione della precarietà, fatta di contratti brevi senza alcuna ragionevole garanzia di stabilizzazione dopo tre anni di rinnovi (se va bene). Sono loro i primi a rischiare di entrare in una porta girevole all’infinito".
– Brancaccio su L'Espresso: "Sarà un buco nell'acqua, perché è già dimostrato che più precarizzazione non vuol dire più occupazione".
– Tiraboschi su Formiche: "Alla fine di tutto, insomma, anche su mercato del lavoro noi siamo il frutto delle nostre scelte e ancora una volta, il rinvio dei nodi critici e le scorciatoie prese sulla flessibilità e la costruzione di un vero sistema di apprendistato come leva della produttività delle imprese ci porta a ritenere che, al di là delle dubbie coperture finanziare, la svolta culturale non c’è stata e si è scelto di non scegliere in attesa di tempi migliori".