Prima di tutto i dati: il tasso di disoccupazione in Italia è al 13%, il tasso di inattività nella popolazione dai 15 ai 64 anni raggiunge il 36% (26,5% maschile e 45,4% femminile), mentre quello di occupazione cala al 55,5% (ultime rilevazioni ISTAT del 30 aprile 2015 relative a marzo). Per quel che concerne i giovani dai 15 ai 24 anni, il tasso di disoccupazione è al 43,1%, quello di inattività al 74,5%: anche in questo caso si segnala un aumento tendenziale rispetto al mese di febbraio.
Come ha mostrato un dossier di Repubblica, poi, negli anni della crisi economica (e segnatamente tra il 2007 ed il 2014) la disoccupazione è aumentata del 108,2%, più del doppio della media dell’Unione Europea, al contempo il lavoro precario è aumentato del 3% (mentre, ad esempio, in Germania è calato del 10%).
Proviamo ora ad esaminare i dati sulla disoccupazione relativamente al Governo guidato da Matteo Renzi:
Il confronto con i dati degli ultimi dieci anni, però, evidenzia come si tratti di una tendenza consolidata:
In tale intervallo di tempo è cresciuta anche la disoccupazione in Europa, passando dal 6,4% al 10,2% e coinvolgendo tutti i Paesi, ad eccezione di Germania, Polonia e Malta (discorso simile per la disoccupazione giovanile, che è al 40% a livello europeo).
In Italia c’è poi un altro dato da considerare in tutta la sua rilevanza: il divario (anche) occupazionale fra Nord e Sud. Nell’ultimo trimestre del 2014 la disoccupazione al Nord era al 9%, al Centro del 12.2, al Sud del 21.2; dieci anni prima al Nord eravamo al 4.3; al Centro al 6.5; al Sud al 14.8%; all’avvio della crisi, nel 2007 al Nord il tasso era del 3.5%, al Centro del 5.3, al Sud dell’11.1 (sempre dati Istat). Insomma, la crisi ha colpito tanto più duramente le zone meno sviluppate e ancora più profondamente i salari più bassi.
Che l'incidenza della crisi economica si sia sommata all'incapacità della politica nel fornire risposte adeguate è più che una ipotesi, dunque. A questioni complesse, si è sostanzialmente risposto con provvedimenti – spot, con misure inefficaci e parziali, con compromessi al ribasso fra aziende, sindacati, corporazioni e politica, oltre che con una sostanziale indifferenza rispetto alle ricadute sui corpi sociali più deboli ed esposti alle oscillazioni della crisi. Negli ultimi dieci anni, mica ieri mattina.
Come scriveva Francesco Daveri su LaVoce.info, “semplificando all’osso, l’evoluzione nel tempo della disoccupazione dipende da tre variabili: andamento del Pil, regole del mercato del lavoro e processi strutturali come la possibilità delle imprese di delocalizzare una parte delle attività”. Il Pil italiano negli ultimi anni ha avuto un andamento altalenante, ma con una tendenza chiara, come evidenzia una tabella del Fmi:
Più in generale le condizioni dell'economia italiana sono pessime (e i gufi c'entrano poco). Il Governo, in attesa della benedetta ripresa e anche per "agevolarla" (che poi non c'è correlazione immediata fra aumento del Pil e dell'occupazione, come spiega sempre Daveri: "La disoccupazione diminuirà meno dell’aumento del Pil: se l’economia riparte dopo una recessione, gli imprenditori sono inizialmente incerti sulla qualità e la durata della ripresa e dunque non ricominciano subito ad assumere”), ha deciso di mettere mano alle regole del mercato del lavoro. Come? Nel solco della flessibilità, tanto in entrata quanto in uscita. E con incentivi contro la delocalizzazione delle aziende e per favorire le nuove assunzioni (la decontribuzione, che però rischia di risultare meno efficace nelle aree depresse). Per ora, però, i dati sono quelli che sono. E per ora, non resta che aspettare "che il cammello si decida a bere".
Fare un primo bilancio del Jobs Act e astenersi dal dire "ve lo avevamo detto di frenare l'entusiasmo" (ma proprio detto e ridetto), è molto difficile. I dati sono quelli che sono, anche se ad onor del vero occorrerà attendere che si consolidino, considerando che la riforma Renzi – Poletti è entrata completamente in vigore a marzo (la decontribuzione contenuta nella legge di stabilità da gennaio, invece). Il primo maggio 2015 è però inevitabilmente "quello del Jobs Act", quello senza articolo 18, quello della flessibilità in entrata e in uscita oppure, se più vi aggrada, quello della "rivoluzione renziana" che ha cancellato la precarietà (che poi non è mica vero, eh).
Ma da qualunque parte della barricata voi siate, è il Primo Maggio della definitiva sostituzione concettuale ed ideale del "reddito" al "lavoro". Che ha senso se declinata nel sostegno al reddito familiare, nell'assistenza a chi perde il lavoro, nel "nessuno deve essere lasciato solo". Ne ha meno se tutele e diritti possono essere comprati con pochi spiccioli, come avverrà nel contratto a monetizzazione crescente (perché di tutele che crescono nemmeno l'ombra, sia chiaro). E ne ha pochissimo se non si ha il coraggio di affrontare il problema della povertà, se si considera ad esempio il reddito minimo come il "fantasma dell'assistenzialismo che ha distrutto il Paese" e non come uno strumento di giustizia sociale. Come scriveva Gilioli, "tutto questo, com'è evidente, implica un passaggio: quello in base al quale il cittadino gode del welfare come tale – cioè come persona – non come lavoratore o ex lavoratore. Possiamo insomma avere individui insicuri del proprio futuro produttivo, data la veloce mutazione dei lavori – ma non persone insicure della propria continuità di reddito".
Perché flessibilità e precarietà riducono la sicurezza economica delle persone. Ed è il denaro a produrre distanze, a scavare solchi, ad influenzare scelte, comportamenti, vite. Almeno finché ci rassegneremo a considerare questo come il migliore dei mondi possibili.