Si è aperta all’Auditorium della Conciliazione di Roma la quarta edizione degli Stati generali della natalità, l’ormai annuale appuntamento organizzato dal Fondazione per la Natalità. L’evento non è patrocinato dal governo, ma oltre alla partecipazione di suoi diversi esponenti, si può dire che lo scopo di questa manifestazione sia perfettamente in linea con gli obiettivi e soprattutto la retorica meloniana in tema di crisi demografica: per superarla, basterebbe cambiare “narrazione”. In altre parole, convincere le donne a fare figli.
Il “sostegno alla famiglia e alla natalità” è il primo punto del programma elettorale con cui Fratelli d’Italia si è presentato alle politiche del 2022 per rendere “una Nazione veramente sovrana e spiritualmente forte”, con una citazione di Giovanni Paolo II. Le promesse del programma erano l’introduzione del quoziente familiare (una tassazione progressiva sulla base del numero dei figli, introdotta solo in parte), l’aumento dell’assegno unico, inserito nell’ultima legge di bilancio, e la riduzione dell’Iva sui prodotti per la prima infanzia, che invece è aumentata dal 5 al 10%.
Ma oltre a bonus e incentivi monetari, la vera rivoluzione del governo sul tema della denatalità, annunciata più e più volte, è il “cambio di narrazione”, che trova spazio anche agli Stati generali della natalità in uno dei panel principali, tenuto da un parterre di giornalisti e intitolato proprio “Natalità e narrazione”. Meloni l’ha ribadito più volte: solo poche settimane fa, partecipando a una conferenza sull’Europa, aveva detto che “nessun intervento concreto è sufficiente se non si cambia la narrazione che per anni ha detto che avere un figlio avrebbe compromesso i tuoi sogni, la tua realtà, addirittura la tua bellezza”, auspicando una società “dove fare il padre non sia fuori moda e essere madri sia un valore socialmente riconosciuto e valorizzato, anche custodito”. Anche durante la conferenza stampa sulla legge di bilancio la premier aveva ricordato l’intenzione del governo di “smontare la narrativa per cui la natalità è un disincentivo al lavoro”.
Al Summit demografico di Budapest, mentre elogiava le politiche nataliste di Orbán, che hanno effettivamente aumentato il numero di nuovi nati in Ungheria ma distrutto i diritti delle donne, Meloni ricordava che “una delle ragioni di questa crisi [demografica] è come viene affrontata la questione dal punto di vista dei media. Pensiamo ai modelli sociali che vediamo in televisione e di come sono cambiati nel corso del tempo, l'immagine tipica di una famiglia è svanita”.
Secondo la prima ministra, la crisi demografica sarebbe quindi dettata soprattutto dal fatto che negli ultimi anni “la sinistra” ha propagandato l’idea che la famiglia tradizionale sia una brutta cosa, sostituendola con altri modelli (il riferimento neanche troppo velato è chiaramente alle famiglie arcobaleno, contro cui il governo si è accanito). Per questo è necessario far tornare “cool” la maternità, come disse la parlamentare di Fdi Lavinia Mennuni, durante un programma televisivo su La7, ricordando che “la prima aspirazione di una donna è quella di essere mamma” e che fare figli è “una necessità, una missione” per “mettere al mondo i futuri cittadini e italiani”.
La direttiva sulla “narrazione” è così arrivata anche in Rai: nel contratto di servizio della dirigenza della tv pubblica insediatasi a maggio del 2023, un punto era dedicato al ruolo della Rai nel “contribuire alla promozione della natalità e della genitorialità”. Anche il ministro del Made in Italy Adolfo Urso in un’intervista aveva affermato che “la tendenza [in televisione] è sottolineare gli aspetti negativi di natalità e genitorialità. Mentre la sfida è rappresentarne i valori positivi e le emozioni che portano i bambini nelle famiglie”.
Ma è davvero la “narrazione” il motivo per cui si fanno pochi figli in Italia? Se così fosse, non si spiegherebbero questi dati: secondo l’Istat, il 45,4% delle donne in età compresa tra i 18 e i 49 anni non ha figli, ma soltanto il 17,4% di loro non ha intenzione di averne perché non rientrano nei propri progetti di vita. Il restante 27% delle donne non va convinto con una storiella accattivante sulla necessità di mettere al mondo un figlio, perché lo vuole già ma evidentemente non lo può avere.
Se ci fossero condizioni di vita migliori, se gli stipendi fossero più alti, se i contratti fossero a tempo indeterminato, se esistesse una rete di welfare efficiente, se i fondi per gli asili nido non fossero stati ridimensionati, gli italiani farebbero tutti i figli che desiderano (cioè tanti, secondo l’Istat). E li farebbero come coppie e come famiglie, senza scaricare la responsabilità della denatalità sulle sole donne.
Ogni volta che questo governo mette bocca sull’autonomia delle loro scelte, sembra pensare che le donne possano essere semplicemente convinte a rivedere le priorità della loro vita. Se non vuoi figli, una fiction Rai ti può far cambiare idea mostrandoti quanto è cool la maternità. Se vuoi interrompere una gravidanza, devi prima passare da una serie di figure autorizzare dal governo che ti fanno terrorismo psicologico su ciò che ti stai perdendo. E allora via, con le tavole rotonde, i convegni, i regolamenti, addirittura gli “Stati generali” per capire come organizzare al meglio questa opera di convincimento.
Ma quel 17,4% di donne non cambierà idea sulla maternità perché glielo suggerisce lo Stato o un panel di giornalisti. Pensare di poter modificare le scelte riproduttive delle donne agendo sulla narrazione, in altre parole sulla propaganda, forse è attuabile in regimi illiberali come quello ungherese. Un Paese democratico, invece, farebbe di tutto per far sì che le persone che già hanno progetti di genitorialità possano realizzarli davvero.