Se una donna in Italia è intenzionata a interrompere una gravidanza, lo stato le negherà la possibilità di sapere quali sono gli ospedali che la praticano, quanti obiettori ci siano nella sua città o qualsiasi altra informazione utile. Però potrà sapere, a grandi linee, cosa succedeva tre anni fa nella sua regione. È questo lo stato dell’informazione sull’aborto in Italia: la legge 194 prevede che a febbraio di ogni anno il ministero della Salute riferisca al Parlamento sull’applicazione della legge attraverso una relazione scritta. Siamo al 10 ottobre, e della relazione non c’è neanche l’ombra.
Il ritardo è ormai cronico: lo scorso anno la relazione era stata trasmessa il 12 settembre, con quasi 200 giorni di attesa, e conteneva le informazioni relative all’anno 2021. Nel 2022 era andata meglio, nonostante la raccolta dei dati fosse stata fatta nell’anno della pandemia: il documento era stato trasmesso l’8 giugno. Quest’anno il record è stato superato: 225 giorni oltre la scadenza. L’accumularsi del ritardo quest’anno ha spinto la deputata del Movimento 5 Stelle Gilda Sportiello a fare un’interrogazione parlamentare a risposta scritta al ministro Schillaci dove si chiede conto non solo della relazione, ma anche delle iniziative “per garantire un corretto, completo e uniforme accesso all'interruzione volontaria della gravidanza su tutto il territorio nazionale”.
Da anni, diverse associazioni denunciano i problemi di questa relazione. Oltre al ritardo con cui viene presentata e all’obsolescenza dei dati che contiene, la modalità di raccolta non permette di capire il reale e attuale stato dell’accesso all’interruzione di gravidanza. Sempre secondo la legge, infatti, le regioni devono fornire i dati sull’ivg entro la fine di gennaio dell’anno successivo. Tra i dati raccolti ci sono le caratteristiche demografiche di chi abortisce, come l’età o lo stato di occupazione, le modalità dell’aborto e le eventuali complicanze ma anche dati che riguardano le strutture sanitarie, come quelli sull’obiezione. Il problema è che si tratta di dati aggregati per regione, che non consentono di conoscere ad esempio quale sia la percentuale di obiettori in una certa città o ospedale. In più, ci sono differenze enormi tra una regione grande con decine di ospedali in cui è possibile ottenere un’ivg e una regione come il Molise, dove c’è una sola struttura.
Nel 2022 l’associazione Luca Coscioni pubblicò l’inchiesta Mai dati. Dati aperti (sulla 194), poi confluita in un libro, che conteneva i dati raccolti attraverso la richiesta di accesso civico generalizzato, uno strumento a disposizione dei cittadini che obbliga le pubbliche amministrazioni a fornire i documenti richiesti. I dati raccolti dalla bioeticista Chiara Lalli e dalla giornalista Sonia Montegiove mostravano una situazione completamente diversa da quella descritta nella relazione del ministero: un’Italia in cui 72 ospedali hanno tra l’80 e il 100% di obiettori di coscienza e 22 ospedali e 4 consultori hanno il 100% di obiezione tra medici ginecologi, anestesisti e personale non medico.
“Pubblicare i dati sul funzionamento di un servizio pubblico è sia segno di trasparenza, sia un indicatore della buona operatività di un sistema, di una filiera che funziona e che si prende cura della raccolta dati, dall’inizio alla fine del processo”, spiega la giornalista e data humanizer Donata Columbro. “Ma senza una corretta informazione, le donne e le persone gestanti che cercano di accedere a questo servizio si trovano a dover fare diversi tentativi o affidarsi al passaparola per trovare una struttura e un’équipe medica in grado di accoglierle e garantire un servizio che, di fatto, dovrebbe essere accessibile per legge. Così si crea un buco: da una parte una legge che garantisce il funzionamento di un servizio sanitario di base, dall'altra l'impossibilità di capire come e dove poterne usufruire”.
La relazione sulla 194 non è soltanto un resoconto burocratico, ma si trasforma in uno strumento politico. Molte volte i dati in essa contenuti sono stati utilizzati dai politici per dimostrare che in Italia non esiste il problema di accesso all’Ivg che tante associazioni femministe e giornalisti denunciano. Lo scorso marzo, ad esempio, a una interrogazione parlamentare di Andrea Quartini del M5S sullo stato dell’aborto in Italia, la ministra della Famiglia Eugenia Roccella rispose che in Italia è più difficile partorire che abortire, citando proprio i dati “facilmente consultabili” contenuti nella relazione, che “una realtà fattuale opposta a quella delineata dagli interroganti”. La verità è che dalla relazione emerge ben poco o, al massimo, può emergere un’idea di ciò che accadeva negli ospedali italiani tre anni fa. Con più di 200 giorni di ritardo.