E' il 16 novembre 2011 quando Mario Monti, ex commissario europeo, scioglie la riserva, svela la lista dei ministri del suo governo e giura al Quirinale davanti al Presidente della Repubblica. Nei giorni successivi arriva la fiducia dal Senato e dalla Camera. Quella che segue è storia nota, ampiamente dibattuta e mai così controversa. In effetti è praticamente impossibile rintracciare una singola valutazione "imparziale o non orientata" sull'operato del Governo tecnico (che poi tecnico è solo in parte, se non altro in considerazione della nomina di Monti come senatore a vita, avvenuta solo qualche settimana prima dell'assegnazione dell'incarico di formare il Governo). Questo perché mai come negli ultimi anni, alla critica feroce e polemica contro la casta si è affiancato paradossalmente un allargamento della partecipazione al dibattito. In pratica, senza estremizzare, la politica è stata percepita, vissuta e in gran parte criticata come realmente incidente sulle esistenze individuali.
Un popolo di "elettori traditi", cittadini inferociti, militanti delusi, commentatori indifferenti ma presenti, ha di fatto rivolto con sempre maggiore frequenza la sua attenzione sui palazzi del potere, romani e non solo. Da facebook a twitter, da youtube ai blog, milioni di commenti, impressioni, suggerimenti, insulti, consigli e vedute hanno avuto per oggetto le questioni all'ordine del giorno sull'agenda politica. Il popolo dei 60 milioni di allenatori è diventato quello dei tecnici, degli economisti, dei politologi. E che tale mobilitazione fosse sotto l'insegna dell'antipolitica (un termine che non abbiamo mai amato), che si traducesse in un disimpegno complessivo (come mostra l'aumentare dell'astensione elettorale), che si trasformasse in rabbia cieca e adesione acritica a nuove e meno coerenti "religioni della politica", che si traducesse in esaltazioni della conservazione, della reazione autoritaria o di contro in aspirazioni palingenetiche di stampo rivoluzionario, la politica ed il Governo hanno dovuto confrontarsi con un quadro mutato, probabilmente in modo irreversibile.
Una mobilitazione che ha accompagnato per 365 giorni le mosse dell'esecutivo. Con ministri che del resto, malgrado i proclami della vigilia e con qualche eccezione, hanno fatto del loro meglio per rimanere sotto i riflettori. Doveva essere il Governo della sobrietà e dell'equità. Della sobrietà nei comportamenti dei ministri, prima di tutto. Un auspicio disatteso, diciamolo senza giri di parole. Con ministri che hanno "esternato" un giorno sì e l'altro pure, non sempre a ragione e troppo spesso utilizzando la vecchia e paradossale tecnica della "smentita preventiva", tanto cara al predecessore del Professore. Non indugeremo a lungo su questo punto, ma l'elenco è lungo e a tratti anche preoccupante. Doveva essere il Governo dell'equità, nei programmi e negli atti concreti. Semplicemente non lo è stato. Dalla riforma delle pensioni a quella del lavoro, passando per la spending review e per le mancate liberalizzazioni, fino a chiudere con una legge di stabilità (che nella sua versione originaria era uno schiaffo all'idea stessa di giustizia ed equità sociale). Doveva essere il Governo del dialogo con le forze politiche e della rivalutazione del ruolo del Parlamento. Il procedere a colpi di fiducia e l'atteggiamento (spesso a buona ragione) dei tecnici nei confronti di deputati e senatori è esemplificativo di cosa è stato in realtà. Con le minacce flosce dei partiti e la malcelata insofferenza dei tecnici – salvatori che rappresenta uno degli aspetti più controversi di questi dodici mesi.
È stato il Governo del rigore nei conti e del rispetto degli impegni presi in sede europea. Senza alcun dubbio. Dal ddl costituzionale per il pareggio di bilancio in Costituzione (30 novembre alla Camera), alla legge comunitaria; dalla riforma del lavoro al ddl di revisione del Patto di bilancio europeo (24 maggio). È stato il Governo della ritrovata credibilità internazionale e, aggiungeremmo in seconda battuta, della dignità del ruolo del Presidente del Consiglio. Un Governo che ha certamente assolto il compito per cui era stato "evocato", ma che non è riuscito ad andare oltre né a fare "quelle riforme che i partiti non sono stati in grado di fare". Un fallimento che solo in parte risponde ad una vera volontà politica. Ma la cui ragione profonda risiede nella mancanza di legittimazione popolare che è il vero "fattore" con il quale la politica dovrebbe cominciare a confrontarsi a viso aperto.
Nelle condizioni in cui versava la politica italiana un anno fa, forse è stato il migliore dei governi possibile. Ma questo non basta né è sufficiente perché il giudizio sia complessivamente positivo. Perché l'idea che ad un'anomalia (quella della politica incompetente e sprecona, corrotta ed impunita) si debba necessariamente rispondere con un'altra anomalia (un Governo sostanzialmente imposto e non legittimato dal voto popolare) è semplicemente inaccettabile. Il nostro è un grande Paese e merita una classe dirigente all'altezza. Ma soprattutto gli italiani hanno il diritto di scegliere i loro governanti (e senza leggi truffa o alchimie elettorali). Utopia? No, semplicemente democrazia. E non c'è spread che tenga.