Il giuramento del Governo Conte bis nato dall’accordo fra Movimento 5 Stelle e Partito Democratico. Il trasloco dagli uffici del Viminale, dove si insedierà l’ex prefetto di Milano Luciana Lamorgese, già capo di gabinetto del contestatissimo Angelino Alfano. L’indicazione di Paolo Gentiloni quale rappresentante italiano nella Commissione Europea. La scelta di Roberto Gualtieri, europeista convinto, nel posto per il quale la Lega sognava Paolo Savona. L’indagine per aver diffamato la capitana della Sea Watch 3 Carola Rackete. La decisione del Tribunale di Locri di revocare la misura cautelare di divieto di dimora nei confronti di Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace oggetto di una violenta campagna leghista.
Il 5 settembre 2019 è il giorno in cui la Waterloo di Salvini appare in tutta la sua nitidezza e chiarezza: insuccessi e battute d’arresto a raffica per chi, fino a qualche settimana fa, aveva in mano le chiavi del governo, gestiva l’agenda e il dibattito pubblico e aveva la fama del “genio della politica e della comunicazione” qualunque cosa scrivesse o facesse sui social network. Gli stessi luoghi in cui in queste ore domina il #SalviniAsfaltato, hashtag che peraltro si muove tutto all’interno del frame salviniano, quello del linguaggio violento e apodittico applicato alla comunicazione politica.
Certo, servirebbe equilibrio, pur in presenza di una sconfitta inequivocabile. Non fosse altro per gestire con la serietà che merita questa specie di Congresso di Vienna che dovrebbe garantire la pacificazione nazionale e la tenuta dei conti del Paese, ma che per ora ha garantito poltrone agli sconfitti del 4 marzo 2018 e la tenuta di una legislatura che ha portato l'Italia a un passo dal baratro. Equilibrio occorrerebbe anche nella valutazione dei fatti di queste settimane, in modo da pesare gli errori di Salvini ma anche i limiti del processo che ha portato alla formazione di una nuova maggioranza.
Di quanto Salvini abbia sbagliato modi, metodo, tempi e gestione dello strappo si è scritto tanto, forse anche troppo. Meno si è scritto su quanto fosse intrinsecamente debole un accrocchio di governo, sostenuto da forze dai programmi e dagli obiettivi diversi, dalla storia distante e con leadership aggressive e tendenzialmente alternative. Ancor meno si è scritto sull’effetto perverso che il clima da campagna elettorale perenne determina sulle dinamiche di governo. Ironia della sorte, l’unico che ha provato a spiegarlo (riferendosi alle scelte comunicative del M5s prima e dopo le Europee) è stato proprio Salvini, l’uomo che parla come se fosse in campagna elettorale anche quando va dal salumiere a fare la spesa.
Perché la rottura è certamente nata dalle velleità e dai calcoli errati di Salvini, ma le sue ragioni profonde erano intrinsecamente legate alla struttura stessa del rapporto con l’alleato di governo. Un rapporto strutturato sulla base di un accordo politico nato in un clima di emergenza, di fronte al rischio di una instabilità che avrebbe aggravato le condizioni economiche del Paese; una alleanza con numeri deboli in Parlamento, con la necessità di procedere a continue e snervanti mediazioni in sede di governo e di partito; un patto fra due leader in competizione sul piano del consenso personale; una unione forzata tra due partiti i cui gruppi dirigenti si detestano vicendevolmente.
Vi ricorda qualcosa?