Una volta ho visto un collega travestito da medico cercare di entrare nel reparto dov’era ricoverato un manager accusato di tangenti. Fingendo di essere segretari di parlamentari e di politici regionali, negli anni sono stati centinaia i cronisti entrati nelle carceri. A bordo del fuoristrada di un amico, fingendo di essere la scorta di un dirigente sanitario, in due giornalisti abbiamo superato vari posti di blocco per raggiungere il luogo esatto di un disastro aereo. Si potrebbe continuare per pagine e pagine, ma il discorso è sempre uguale a stesso: per “la” notizia, e per avere una notizia in più, il bravo giornalista sorvola su alcune regole e mostra i fatti e non quelli che Leonardo Sciascia chiamava “i fantasmi dei fatti”.
Personalmente – devo dirlo, in questo caso – non ho mai registrato di nascosto qualcuno (una sola eccezione, che risale al 1983) e non è un metodo che amo. Ma so perfettamente che a volte è inevitabile farlo, specie se serve a documentare una storia o se bisogna fare in modo che l’intervistato non smentisca le sue parole. Da quando esiste il giornalismo, esiste la possibilità e anche la volontà d’infiltrarsi in ambienti che non vogliono la presenza di giornalisti. Per tutto questo, la documentazione video fornita da Fanpage non è, come ha sostenuto Giorgia Meloni, presidente del consiglio, “regime”: è semplicemente giornalismo e il giornalismo può dare fastidio al potere. O a chi vuole nascondere verità scomode. Talmente scomode, indigeste e preoccupanti – giovani di Fratelli d’Italia che intonano il “Sieg Heil” dei nazisti, che ce l’hanno con i “negri” e con gli ebrei – da scatenare il contrattacco di Liliana Segre. La quale chiede: «Dovrò essere cacciata ancora dal mio Paese?”.
A questa domanda intrisa di dolore, la risposta di Giovanni Donzelli, responsabile dell’organizzazione del partito di destra, è stata: «Ascolteremo». Ma per favore! Ma che cosa c’è esattamente da ascoltare ancora? Non è sufficiente quello che c’è già in piazza? Ci sarebbe invece da comprendere quello che Liliana Segre ha detto per approdare, ammesso che lo si voglia e se ne abbia la forza morale, a una qualche conclusione politica.
Ci permettiamo di aiutare la riflessione con due citazioni. Una è: “Toccasse a me decidere se dovessimo avere un governo senza giornali o giornali senza un governo, non esiterei un attimo a preferire la seconda opzione”. L’altra suona così: “Qualunque persona che abbia ancora un briciolo d’onore dovrà fare molta attenzione prima di scegliere la professione di giornalista”. Sono due posizione estreme, ma Thomas Jefferson, presidente Usa nel’800, e padre della dichiarazione d’indipendenza, aveva a cuore la libertà di espressione. Mentre Joseph Goebbels, genio della propaganda nazista, nel 1941 voleva che nessuno osasse mettere in dubbio il potere (dello Stato e di Hitler).
“Giorgia” non è solo “Giorgia”. E’ un’istituzione, è l’incarnazione della Presidenza del Consiglio della Repubblica italiana. E quindi, nel suo ruolo, come può pensare che il regime sia quello dei giornalisti? Sa o non sa che le democrazie hanno bisogno di essere più “trasparenti” delle dittature? Che i regimi – la Corea del Nord, la Russia e altri ancora – sono quelli che impediscono ai giornalisti di lavorare?
In ogni caso, chiedere da parte della Presidenza del Consiglio un intervento al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella sul tema delle inchieste giornalistiche è qualcosa che va al di là della minima grammatica istituzionale. Se proprio vuole insistere anche a rischio di pessime figure, “Giorgia” attraverso vari canali che il suo sottosegretario troverà può ufficialmente domandare alla Costituzionale se esiste armonia tra quanto stabilisce l’articolo 21 della Costituzione, dedicato alla libertà di stampa e di parola, e il dettato dell’articolo 49, che parla dei partiti. Sostenendo – il 49 va letto bene – che tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente per concorrere con “metodo democratico” (attenzione) a determinare la “politica nazionale” (ri-attenzione). E quindi, un giovane razzista, antisemita che fa il saluto romano fa parte del “metodo democratico” condiviso dagli italiani di determinare la politica? Oppure, la “politica nazionale” avrebbe bisogno, oggi più che mai e una volta per tutte, che Fratelli d’Italia si dichiari senza se e senza ma “antifascista”?
È questo infatti un punto cruciale che l’inchiesta giornalistica di Fanpage ha coraggiosamente e cronisticamente messo in evidenza: è su questo tema che la leader di un forte partito e “istituzione” deve (o dovrebbe?) rispondere. Ma davvero, c’è da ascoltare ancora la senatrice a vita Segre?
Qui non occorre il dibattito dei perditempo da talk show televisivo, bisogna alzarsi dalla sedia e muoversi, lasciando in pace chi, in fin dei conti, ha soltanto mostrato un pezzo di realtà. E, osiamo dire, un pezzo di scomoda (per FdI) verità. Come vuole la deontologia del giornalista, o di quello che ne rimane.