Ha detto che l'Italia ce la farà qualunque governo sarà in carica, perché “chiunque verrà eletto saprà preservare lo spirito repubblicano”. Ha messo i paletti su atlantismo e sostegno all’Ucraina, perché è lì che siamo ancorati. Ha parlato di Unione Europea come di un orizzonte necessario, ma ha anche detto che le regole di bilancio attuali della Ue “sono poco credibili e poco efficienti”, e che “non permettono di gestire delle fasi di crisi così come non permettono di un costruire un necessario sovranismo europeo”.
Questo, in estrema sintesi, è l’attesissimo discorso di Mario Draghi al Meeting di Comunione e Liberazione che si sta tenendo in questi giorni a Rimini. Un discorso che, leggendolo, più che ascoltandolo, assomiglia tantissimo a una specie di monologo dedicato a Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia e della destra, candidata numero uno a succedergli a Palazzo Chigi.
È a lei che Draghi si rivolge quando di fatto la legittima come futura leader del Paese, fugando ogni dubbio sulle ombre fasciste che volteggiano sulla fiamma tricolore e sui suoi amici all'estero, dall'autocrate ungherese Viktor Orban ai franchisti spagnoli di Vox, dicendo chiaramente che anche lei, come gli altri, saprà preservare lo spirito repubblicano di questo Paese. Un messaggio, questo, rivolto anche a tutto l'establishment nazionale e internazionale che si abbevera alle parole di Draghi come fosse una specie di oracolo. A cui il presidente del Consiglio sta dicendo che di Giorgia Meloni e della destra non c'è troppo da preoccuparsi.
Ed è ancora evidentemente lei – e la destra tutta – il destinatario di alcuni paletti che Draghi mette su Europa, Ucraina e altantismo, pur concedendo a Meloni e Salvini che le regole europee siano da cambiare, perché non permettono di gestire le fasi di crisi come quella che stiamo attraversando, frasi che immaginiamo Meloni e Salvini useranno come una clava contro chi rinfaccerà il loro euroscettismo passato e presente.
Il tutto confezionato con un tono quirinalizio che ci racconta che Presidente della Repubblica sarebbe stato Mario Draghi se il Parlamento non lo avesse inchiodato a Palazzo Chigi, prima di defenestrarlo. Un garante dell’integrità europeista e atlantista dell’Italia, un guardiano del nostro debito pubblico dalle tempeste speculative all’orizzonte. Ma anche una figura in grado di offrire legittimazione internazionale a qualunque governo e a qualunque maggioranza uscita dalle urne.
Questo è quel che ha fatto Draghi oggi. Ha legittimato la destra e segnato i confini entro cui potrà muoversi. Il fatto che l’abbia fatto prima del voto ha il suo peso. Il fatto che la platea abbia rivolto a lui e a Giorgia Meloni le medesime ovazioni, pure.