Il diavolo si nasconde nei dettagli. E presentare un decreto sul lavoro, coi giornali che non vanno in stampa il giorno dopo, senza nemmeno convocare una conferenza stampa per evitare domande, affidando la comunicazione a un video promozionale, è un ottimo dettaglio da cui partire, per parlare dell’ultimo pacchetto di misure sul lavoro varato dal governo Meloni. Perché se il decreto lavoro fosse stato davvero, come dice Giorgia Meloni, il “più grande taglio delle tasse degli ultimi decenni”, le scelte di comunicazione sarebbero state molto diverse.
Partiamo da quest’ultima affermazione, che di tutte le mistificazioni e le omissioni, è forse la più clamorosa. Perché no, il taglio di 4 miliardi circa del cuneo fiscale – la parte di stipendio che finisce nelle casse dello Stato – non è nemmeno lontanamente il più grande taglio delle tasse degli ultimi decenni. Stando nell’ambito degli sgravi fiscali in materia di lavoro, i tanto criticati 80 euro del governo Renzi costarono più del doppio, circa 10 miliardi all’anno.
Secondo dettaglio, seconda mistificazione: il taglio del cuneo del decreto lavoro è temporaneo e non definitivo. Dura cioè fino a dicembre, e per perdurare anche per gli anni a venire necessita di essere rifinanziato. Abbiamo pochi dubbi sul fatto che lo sarà – nessun governo è così folle da non rifinanziare un taglio fiscale a pochi mesi da un appuntamento elettorale, per giunta cruciale come quello delle prossime elezioni europee -, ma la provvisorietà di questo taglio fiscale è un fatto che non può essere eluso. Anche perché mostra quanto poco spazio fiscale abbia a disposizione questo governo per operare.
Terzo dettaglio, importante omissione: il taglio del cuneo fiscale, e il relativo aumento degli stipendi, mitiga molto parzialmente la perdita di potere d’acquisto dei salari successiva al forte aumento dei prezzi degli ultimi mesi. Un aumento dei prezzi che ha reso più ricco – meglio: meno indebitato – lo Stato, che ha pagato interessi più bassi sul debito pubblico. E che, tuttavia, lo Stato ha trasferito in misura proporzionalmente molto inferiore nelle tasche dei lavoratori.
Quarto dettaglio, altra mistificazione: contraltare al taglio del cuneo fiscale – piccolo, temporaneo e bruciato dall’inflazione – c’è l’allentamento delle strette sui contratti a termine e l’abolizione del reddito di cittadinanza, sostituito dall’assegno di inclusione. In altre parole, una decisa diminuzione di sussidi e tutele per chi non ha un contratto a tempo indeterminato, o non ha un lavoro. In altre parole, per la fascia più precaria e meno tutelata dei lavoratori, quella composta da giovani, donne e stranieri. La diciamo meglio: per dare qualcosa ai lavoratori poveri, il governo Meloni ha tolto più di qualcosa a quelli ancora più poveri. Non esattamente quel che avrebbe fatto Robin Hood, diciamo.
Quinto e ultimo dettaglio, forse il più importante di tutti: se non è vero che quello del decreto lavoro è stato il più grande taglio delle tasse degli ultimi decenni, non ci ricordiamo, a memoria, un così drastico taglio di sussidi e tutele. È dai tempi della legge sul lavoro varata dal governo Berlusconi nel 2003 – quella che il governo di destra di allora dedicò al giuslavorista Marco Biagi ucciso dalle Nuove Brigate Rosse – che non si assisteva a un allargamento delle maglie dei contratti para subordinati. Non solo: è la prima volta dai tempi della Legge Fornero del 2012, che introdusse un primo embrione di strumento universale contro la disoccupazione, che si assiste una diminuzione delle risorse destinate ai sussidi per chi non ha lavoro.
L’effetto di questo duplice taglio è facilmente intuibile: se con una mano il governo mette qualche soldo in più, per non si sa quanto tempo, nelle tasche di un po’ di lavoratori con contratto a tempo indeterminato, dall’altra mette nelle mani agli imprenditori la possibilità di risparmiare sul costo della manodopera attraverso contratti para subordinati e toglie potere contrattuale ai lavoratori in cerca d’impiego, obbligandoli a prendere quel che viene, da dovunque venga, per evitare di perdere ogni tipo di sussidio.
Se questo è l’andazzo, mentre altrove in Europa si varano leggi che alzano il salario minimo e riducono la settimana lavorativa a quattro giorni, non lamentiamoci troppo per la fuga dei cervelli all’estero, o per la crisi demografica: il decreto lavoro va esattamente in quella direzione. La direzione del declino senza fine dell’Italia. Non male, per il governo dei patrioti.