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Opinioni

Il caso di Indi Gregory e le domande sul fine vita che faticano ancora a trovare risposta

Il caso di Indi Gregory e di Sibilla Barbieri hanno una cosa in comune: entrambi riguardano una serie di domande esistenziali sulla vita umana – quando questa sia degna di essere vissuta e a chi spetti una decisione quando si arriva alla fine – che faticano a trovare risposte.
A cura di Annalisa Girardi
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Quando una vita è degna di essere vissuta? Quanto conta la coscienza di sé nel definire il concetto stesso di vita? Chi può dare queste risposte? Tocca solo agli individui, oppure allo Stato e ai giudici?

In questi giorni si è parlato molto del caso di Indi Gregory, una neonata inglese di 8 mesi morta a causa di una patologia incurabile, a cui il governo Meloni aveva concesso la cittadinanza italiana per provare a ricoverarla all’ospedale Bambin Gesù di Roma dopo che i medici inglesi avevano annunciato l’intenzione di sospendere i trattamenti di sostegno vitale.

Il caso della piccola Indi Gregory

La piccola si trovava ricoverata fin dalla nascita al Queen Medical Centre di Nottingham, in Inghilterra, a causa di una rara condizione genetica, una malattia mitocondriale che – provando a spiegarlo con parole semplici – impediva alle cellule di generare abbastanza energia per supportare l’organismo. Per i medici non era curabile, e non c’era nulla che si potesse fare per salvare la piccola. Quello che però si poteva fare era evitare di prolungare le sue sofferenze. Così circa un mese fa hanno chiesto ai giudici l’autorizzazione per sospendere i trattamenti che la tenevano in vita. I genitori si erano opposti, ma il tribunale aveva dato ragione ai sanitari appellandosi al principio del migliore interesse del paziente.

Questo principio, nell’ordinamento inglese, prevale su tutto. Anche sul volere dei familiari se il paziente in questione non è in grado di prendere in autonomia una decisione. La piccola aveva appena otto mesi. Non aveva coscienza di sé o della sua condizione. Ha allora prevalso un ragionamento molto chiaro: il vantaggio che potevano portare le cure non era più proporzionale alle sofferenze della piccola e non aveva più senso accanirsi di fronte a una condizione che prima o poi avrebbe fatto il suo corso inevitabile.

La decisione dei medici

Per i giudici, quindi, i medici di fronte a evidenze “unanimi e chiare”, considerando che “il dolore significativo sperimentato dalla bambina non fosse giustificato a fronte di un insieme incurabile di condizioni e nessuna prospettiva di recupero”, sono stati autorizzati a staccare la spina. I genitori della piccola hanno presentato ricorso anche alla Cedu, che ha però riconosciuto la posizioni dell’Alta Corte inglese.

L’appello però è stato accolto dal governo italiano, che in un Consiglio dei ministri lampo convocato d’urgenza le ha riconosciuto la cittadinanza italiana nel tentativo di trasferirla al Bambin Gesù di Roma, e in questo modo, non interrompere il sostegno vitale.

Perché il governo italiano le ha concesso la cittadinanza

Non è la prima volta che il governo italiano prende posizione in una battaglia legale inglese che vede medici da un lato e genitori di un bambino malato terminale dall’altro. Nel 2018 il governo di Paolo Gentiloni, aveva concesso la cittadinanza italiana (dietro richiesta di Giorgia Meloni e del senatore leghista Simone Pillon) a Alfie Evans, un bambino britannico affetto da un disturbo neurodegenerativo. L’Alta Corte britannica aveva però rifiutato il trasferimento e il bambino era morto poco dopo la sospensione del trattamento di sostegno vitale.

Nel caso di Indi Gregory, Giorgia Meloni ha detto di voler fare il possibile per “difendere la vita”, nonostante per i medici non ci fosse più alcuna speranza, e il suo governo si è attivato per portare la bambina in Italia.

Il caso di Sibilla Barbieri

È lo stesso governo che ha negato l’accesso al suicidio assistito a Sibilla Barbieri, una donna di 58 anni, malata oncologica terminale costretta a recarsi in Svizzera per potersi sottoporre al suicidio assistito, in quanto la sua condizione – per quanto terminale e dolorosa – non prevedeva il trattamento di sostegno vitale, requisito necessario per accedere all’aiuto a morire in Italia.

Parliamo di una donna che, a differenza della neonata inglese, aveva piena coscienza della sua condizione e pretendeva piena autodeterminazione a riguardo. Che però, le è stata negata. Non è il primo caso in cui un malato terminale in Italia è costretto ad andare in Svizzera per accedere al suicidio assistito.

In Italia una legge sul fine vita non c’è, ma valgono i paletti riconosciuti dalla sentenza sul caso di dj Fabo, l’uomo accompagnato in Svizzera a morire da Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni e da anni in prima linea sulla battaglia per il fine vita. Per l’ordinamento italiano l’aiuto al suicidio non viene criminalizzato quando il paziente è “tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.

Manca una legge sul fine vita

Per ora chi non rientra in tutti questi criteri, in Italia non è ancora possibile decidere della propria vita.

Per secoli, del resto, in Italia il predominio di un pensiero religioso cristiano ha reso impossibile immaginare l’essere umano come padrone a tutti gli effetti della sua vita. Al contrario, la vita era intesa come un dono, qualcosa che ci viene concesso da un’entità divina superiore e che – in quanto tale – va sempre tutelato. E anche con l’emergere di una corrente di pensiero laica e la considerazione dell’essere umano come unico artefice del proprio destino, l’idea di poter autodeterminare la propria morte è rimasta a lungo un tabù.

Piano piano, però, si è delineato un sentimento collettivo sempre più diffuso che pone la questione della vita dignitosa prima della vita in sé, e che pretende la possibilità per ognuno di disporre della propria esistenza in ogni suo aspetto, anche della sua fine. Non si pretende di stabilire cosa sia una vita dignitosa e che cosa non lo sia. Ma che chiede semplicemente che venga riconosciuta a ogni individuo la possibilità di determinarlo. E poi, di poter decidere di conseguenza in piena libertà.

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A Fanpage.it sono vice capoarea della sezione Politica. Mi appassiona scrivere di battaglie di genere e lotta alle diseguaglianze. Dalla redazione romana, provo a raccontare la quotidianità politica di sempre con parole nuove.
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