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Il bonus bebé per le donne under 30 non servirà a far nascere più bambini

Pensare di risolvere il problema del deficit di natalità in Italia con un assegno alle giovani mamme è la dimostrazione che si sta, ancora una volta, sbagliando strada, ignorando quelle che dovrebbero essere le uniche due direttive da seguire: parità e lavoro.
A cura di Claudia Torrisi
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Qualche giorno fa il ministro per gli Affari sociali con delega alla Famiglia, Enrico Costa, ha anticipato alcuni dei contenuti di un testo unico che il governo presenterà il 13 settembre. Si tratterà di un "provvedimento organico contro l'attuale disordine normativo" sul tema della famiglia, ha spiegato il ministro. Tra le misure potrebbe esserci l'indirizzare il bonus bebé – un assegno che oggi ammonta a 80 euro mensili per tre anni per le famiglie con un reddito che non superi i 25 mila euro – alle donne che partoriscono prima dei trent'anni. In sostanza, si tratta di un premio di natalità legato all'età della madre, perché, ha spiegato Costa, "da tempo siamo di fronte a donne che fanno figli in età sempre più avanzata e a forte decrescita demografica. Siamo di fronte a interventi slegati tra loro che agiscono in prima battuta sul reddito e non sono per tutti. Le misure che faremo aiuteranno le giovani madri che ad esempio hanno la preoccupazione di perdere il lavoro a causa della maternità".

In effetti l'Italia è il paese in cui le donne fanno il primo figlio più tardi in Europa. Secondo i dati Eurostat, nel 2014 l'età media delle donne che hanno partorito per la prima volta è stata di 30,7 anni, contro una media del continente di 28,8. Non è un mistero neanche il fatto che il nostro è il paese che lo scorso anno ha totalizzato il tasso di natalità più basso in tutta l'Unione europea. Nonostante questo, il fatto di legare un eventuale bonus all'età della donna e fissare nei trent'anni il limite è un provvedimento che non sta in piedi.

Innanzitutto, è evidente come un provvedimento del genere possa avere senso solo se non legato all'età della madre, ma del figlio. Come scrive Francesco Billari su Lavoce.info, infatti, "le misure di sostegno alle famiglie con figli sono efficaci quando sono stabili nel corso della crescita del bambino, idealmente seguendolo fino alla maggiore età. Questo accade nei sistemi di welfare più amichevoli nei confronti delle famiglie, nei paesi nordici e in Francia, ma anche in quelli, come la Germania, dove gli sforzi sono più recenti". Il sostegno, insomma, dovrebbe essere "mirato ai bambini (e quindi legato alle loro caratteristiche) e non ai genitori. Ogni nuova misura andrebbe dunque valutata nell’ottica dei figli" – che, per inciso, continuano a costare anche dopo la prima infanzia.

La dichiarazione del ministro alla Famiglia, poi, si inserisce in qualche modo in questa continua retorica dei trent'anni. Trent'anni hanno i "bamboccioni" che restano a casa dei genitori, fino a trent'anni hanno i Neet – coloro che non studiano, né lavorano, né sono impegnati in qualche tipo di formazione. È oramai pacifico che tutto questo spostarsi in avanti della vita così come l'hanno avuta i nostri genitori dipenda in parte da quell'agognata indipendenza raggiunta sempre più tardi, da un mondo del lavoro accartocciato su se stesso che respinge invece di permettere gli ingressi. Trent'anni hanno anche le donne che il ministro Costa vorrebbe mamme ma che di fare figli non ne hanno neanche l'idea. Perché in questo caso dovrebbe essere sufficiente un assegno per sistemare la situazione?

Mi sembra che si parta dal neanche troppo velato assunto che il destino delle donne sia, alla fine della fiera, quello di procreare, e che se questo non avviene in giovane età è sicuramente per via di una motivazione economica. Utilizzando questa premessa, è evidente che basterà qualche euro per pannolini e biberon a far ripartire la natalità tra le under trenta. Sfortunatamente per il ministro Costa, questo teorema non è così esatto come potrebbe sembrare. E questo almeno per due ragioni.

La prima è che, esattamente come accade agli uomini, ogni donna ha una scala di priorità personale, che prescinde dalla biologia. Può sembrare sconvolgente, ma c'è chi per libera scelta decide di avere un figlio più tardi dei trent'anni – e anche chi decide di non averne affatto -, chi si pone degli obiettivi preliminari, raggiunti i quali pensa sia il momento opportuno e chi prima di procreare supera altre difficoltà. Fissare ai trent'anni un limite per cui lo stato dovrebbe aiutarti se fai un figlio, significa suggerire a una donna di rivedere la sue priorità. Come dirle: o lo fai adesso, che è il momento giusto, o te la cavi da sola.

Ci sono poi quelle donne che vorrebbero diventare madri prima dei trent'anni ma posticipano per ragioni di indipendenza economica, di lavoro. Ecco, qui veniamo alla seconda ragione per cui il teorema di Costa fa acqua. Pensare di risolvere il problema del deficit di natalità in Italia con un assegno alle giovani mamme è la dimostrazione che si sta, ancora una volta, sbagliando strada, ignorando quelle che dovrebbero essere le uniche due direttive da seguire: parità e lavoro. Immaginare la procreazione come alternativa all'occupazione nella vita di una donna è un'idea che non solo riporta indietro di almeno un centinaio di anni, ma va nella direzione esattamente opposta al risultato che vorrebbe raggiungere. Il basso tasso di natalità, infatti, si accompagna il più delle volte all'altrettanto basso tasso di occupazione femminile, e alla sempre più alta età d'ingresso nel mondo del lavoro. Fin quando per una donna risulterà impossibile – o davvero molto difficile – conciliare occupazione, indipendenza economica e maternità, e le politiche per giovani, donne e famiglie continueranno a essere barattate con gettoni premio, di figli non ne nasceranno. Tanto più prima dei trent'anni.

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