La cultura della performance, il mito della felicità raggiunta solo dai più dotati e solo mantenendo prestazioni alte. Nessun tentennamento possibile, nessuna pausa permessa. Tutto questo condito da un elogio continuo del successo, l'assillante sfida a se stessi e ai propri limiti, l'eroismo del sacrificio, l'uomo sempre più simile a una macchina. Decisamente non è questo il migliore dei mondi possibili, e sembra che nessuno voglia davvero occuparsene.
Il minimo che possiamo fare, dopo il suicidio della studentessa di 20 anni all'università Iulm di Milano, che si sentiva sbagliata perché pensava di aver "fallito negli studi", è fermarci a riflettere su cosa siamo diventati, sulla sofferenza psichica che una società basata sul sistema economico capitalista provoca negli individui, sulle pressioni quotidiane a cui siamo sottoposti, e di cui spesso non siamo consapevoli. Il merito, sempre e solo il merito sembra contare davvero, come ci ricorda anche questo governo, che il Merito ha voluto addirittura inserirlo nella dicitura completa del nuovo ministero dell'Istruzione guidato da Valditara. Non sembra esserci mai spazio per i secondi, figuriamoci per gli ultimi, per chi arranca, per chi proprio non ci arriva o non vuole arrivarci. Si continuano a spingere le persone fino al massimo delle proprie capacità, verso l'infinito e oltre, come se fossimo tutti dei Buzz Lightyear.
C'è stata una risposta del governo a questa morte? Timida. Esiste una programmazione di lungo periodo, un seppur accennato abbozzo di un orizzonte ideologico alternativo a quello con cui siamo costretti a fare i conti dalla nascita? No.
Eppure la morte di questa ragazza ci impone la ricerca di un significato, con una prospettiva ampia che abbracci più aspetti della realtà, senza limitarci al cordoglio e al rammarico per non aver agito in tempo. Uno sforzo collettivo, prima di tutto di chi governa, per costruire un nuovo sistema di valori, meno degradante e disumanizzante di quello che ha portato una ragazza a togliersi la vita.
Nelle sue reazioni la politica ha mostrato ancora una volta scarsa lungimiranza. Al grido d'aiuto lanciato da una generazione ha reagito proponendo "sportelli psicologici in ogni università", come ha detto la ministra dell'Università Bernini annunciando l'introduzione di presìdi con professionisti, a cui i ragazzi in difficoltà potranno rivolgersi. Peccato che appena 10 giorni dopo il governo abbia affossato gli emendamenti al Milleproroghe che chiedevano più risorse al bonus psicologo, approvato un anno fa su proposta del deputato del Pd Filippo Sensi, che oggi commenta così la bocciatura: "Una scelta sbagliata, crudele, che dice, purtroppo, assai chiaramente che della salute mentale delle persone ce ne occuperemo poi".
Certo, bisogna anche ammettere che di salute mentale adesso si è iniziato a parlare, non è più un tabù. Soprattutto con la pandemia il tema è stato sdoganato, anche grazie a personaggi famosi e influencer che ne hanno parlato apertamente, normalizzando la terapia psicologica, di cui fino a pochi anni fa in molti ancora si vergognavano. Aver introdotto l'anno scorso il bonus psicologo, per aiutare famiglie che avevano avuto conseguenze dopo il Covid a causa del lockdown, dell'isolamento e dell'assenza di socialità, è stata già una piccola rivoluzione culturale, arrivata anche e soprattutto su sollecitazione dei più giovani. Uno stanziamento di 20 milioni di euro – 10 per rafforzare il Ssn e per le assunzioni, e 10 milioni per il bonus psicologo – sarebbe stato impensabile una decina di anni fa. Era poco più di una mancetta, una misura spot, ma è servita a iniziare quantomeno a parlare di benessere psicologico. E a provare a cambiare punto di vista.
Perché serve uno shock culturale
Stiamo dicendo che se fossero stati già attivi gli sportelli psicologici la studentessa si sarebbe salvata? No, non si può dire che la tragedia si sarebbe sicuramente evitata, non possiamo sapere cosa nel profondo abbia potuto portare questa ragazza al suicidio. Però magari si possono dare degli strumenti in più a chi li chiede per convivere con la paura di non farcela, con un'angoscia esistenziale invisibile ma difficile da sostenere per chiunque. Lo Stato ha il dovere di prendersi carico di chi vive questo tipo di disagio, se non può nell'immediato rimuovere materialmente tutti gli ostacoli che impediscono a un individuo di realizzarsi nel pieno delle sue possibilità.
Ma prima di ogni cosa è necessario uno shock culturale, un cambio di paradigma, che ci faccia dire "non esistono solo il lavoro e i soldi, il mio equilibrio e la mia soddisfazione non passano solo da lì. Io sono altro dai miei traguardi e dalle mie sconfitte".
Studiare non è una gara
E il cambio di paradigma deve essere l'obiettivo anche dei media, che spesso sono un ingranaggio fondamentale e un amplificatore di questo meccanismo perverso che genera sensi di colpa. Ce lo ha ricordato molto bene nel suo discorso di ieri Emma Ruzzon, presidente del consiglio dei 70mila studenti dell'ateneo di Padova, denunciando il "sistema merito-centrico e competitivo" dell'università italiana: ‘Si laurea a 20 anni: è il più giovane laureato d'Italia', ‘Studente trovato morto, da mesi non dava gli esami', ‘Gemelli laureati insieme: Il segreto? Una sana competizione', sono solo alcuni dei titoli con cui i giornali rilanciano il modello dello studente perfetto, completamente votato alla carriera universitaria, con un'abnegazione esemplare. Ecco questi sono i tipici esempi disfunzionali e nocivi, che escludono del tutto dal campo delle possibilità l'esigenza sacrosanta di rallentare. Ogni storia è una storia a sé, "studiare non è una gara", scandisce Emma Ruzzon.
Celebrate eccellenze straordinarie facendoci credere invece che debbano essere invece ordinarie, che siano normali. Sentiamo il peso di aspettative asfissianti che non tengono in considerazione il bisogno umano di procedere con i propri tempi, nei propri modi. Stiamo stanchi di piangere i nostri coetanei e vogliamo che tutte le forze politiche presenti si mettano a disposizione per capire insieme a noi come attivarsi per rispondere a quest'emergenza.
Basta con queste carrellate di ‘geni', questi elenchi di studenti che bruciano le tappe: sono il risultato di un algoritmo impazzito che produce ansia, frustrazione e altra infelicità. È il manifesto e nello stesso tempo l'accusa di una generazione, che non vuole più stare male.