Conosco la disabilità. Conosco i sentimenti che si provano mentre si parte per uno di quei “viaggi della speranza”. Viaggi alla ricerca di una cura, di un’operazione, di un miracolo. Conosco quelle sensazioni. Conosco la melodia di “Vedrai, Vedrai”, di “vedrai che cambierà” perché “forse non sarà domani ma un bel bel giorno cambierà”. So cosa si prova a cantarla in silenzio desiderando che tutto ciò sia vero, che davvero qualcosa cambierà.
Conosco gli sguardi delle famiglie, dei padri, delle madri; sguardi in cui la tristezza non esiste, perché non esiste il concetto di resa. Perché non ci si può arrendere, perché non si può razionalizzare la sofferenza di un figlio, perché “è contro natura per una mamma vedere il proprio figlio così”. Parole dette da una madre mentre con una mano sfiorava il volto della propria bambina.
Conosco gli odori degli ospedali, dei centri di riabilitazione: quei neon sempre uguali, quel linoleum che ogni tanto si stacca, che ogni tanto si buca e diventa il tuo compagno di pensieri in quelle attese infinite. Ricordo i bavetti, le pappine, i tubi per respirare, ricordo l’apparato di Ilizarov, ricordo le grida, i lamenti. Ricordo tutto ma non la SLA.
Perché la SLA non ti colpisce da piccolo. E’ un demone che ti porti dentro e cresce insieme a te. E’ un demone che ti lascia vivere in maniera normale fino a 30, 40, 45 anni e poi lentamente ti svuota. Svuota i tuoi arti, i tuoi muscoli, in un’atrofia che ti trasforma in un “leone in gabbia” per utilizzare la metafora con cui Antonio Tessitore (un giovane autore di un libro sulla SLA) descrive la sua condizione. E’ un demone che ti prosciuga.
E così quei viaggi della speranza diventano anche i tuoi viaggi della speranza. Ma inizi a farli mentre sei ancora cosciente, mentre puoi ancora renderti conto di cosa ti sta succedendo. Quei viaggi della speranza che non possono contare su “Vedrai, vedrai”, perché non cambierà. Perché non c’è nessuna terapia conosciuta che può fermare la malattia. L’unica speranza è nella ricerca. Ma la ricerca di una cura alla SLA non è “profitable”, non è economicamente conveniente. A spiegarne le ragioni è stato Anthony, un malato al primo stadio che ha realizzato questo video in cui ringrazia tutte le persone che hanno partecipato all'ice bucket challenge.
Anthony ha ragione: l’ice bucket è servito. E’ servito perché solo grazie all’ice bucket i giornali di mezzo mondo hanno iniziato a parlare di questa malattia. E’ servito perché sono stati raccolti 42 milioni di dollari solo negli USA. E’ servito perché la SLA è una cosa seria.
Ciò di cui si poteva fare a meno è la volgarità con cui le star italiane (e non solo) si sono buttate un secchio d’acqua addosso senza spiegare perché lo stessero facendo. Ciò che non è servito sono state le loro risate sguaiate, i loro bonifici mai fatti.
In quanti si sono gettati un secchio d’acqua in testa solo per partecipare all’Harlem Shake del 2014? Eppure non sarebbe stato complicato, sarebbe bastato spiegare, donare e chiedere di donare. Sarebbe bastato poco, eppure…
Tra i partecipanti all’ice bucket anche il Presidente del Consiglio. Unico caso di Premier ad avervi partecipato (insieme a quello maltese). L'ice bucket di Renzi è stato uno dei migliori, fatto con serietà e con precisione. Ma il Premier dovrebbe anche ricordarsi che è il Presidente di una nazione che spende solo l’1,26% in ricerca (penultimo posto tra i paesi sviluppati, peggio dell’Italia solo Grecia e Turchia). Che la richiesta di donazioni è importante tanto quanto aumentare i fondi alla ricerca.
Matteo Renzi ha invitato i direttori dei giornali a partecipare e allora in redazione ci siamo chiesto come partecipa un giornale. Come si raccoglie la sfida senza cadere nello stesso narcisismo? A Fanpage abbiamo deciso di farlo a modo nostro, abbandonando qualsiasi personalismo e lasciando parlare un malato di SLA e i nostri lettori.
Abbiamo chiesto di mettere una mano in secchio di ghiaccio, abbiamo ricreato loro la sensazione che prova un malato di SLA, il dolore, il fremito che precede l’intorpidimento degli arti. Abbiamo cercato di spiegare il perché dell’acqua ghiacciata. Nel video che accompagna questo articolo abbiamo preferito mettere al centro del nostro video la malattia e non noi stessi.
L’abbiamo fatto perché raccontavamo la SLA prima che diventasse di moda. Eravamo con le famiglie nei sit in, eravamo con loro mentre rivendicavano i diritti. Eravamo con loro durante le proteste sotto il Ministero dell’Economia. Perché la SLA è una cosa seria: non è un secchio d’acqua e una risata. Perché non c’è nulla da ridere quando non ci sono cure.
Per questo doniamo e nominiamo i nostri lettori: donate con o senza un secchio d'acqua in testa.
Oggi faremo una donazione a favore della ricerca per la lotta alla SLA e per 24h dedicheremo l’apertura del nostro giornale all'appello per la raccolta fondi ma domani non sarà un altro giorno. Domani continueremo a raccontare i problemi delle famiglie e le condizioni dei malati come sempre fatto in questi anni.
Perché la SLA è una cosa seria. Perché la SLA non è una doccia in bikini.