Che il reddito di cittadinanza sia una misura imperfetta, anzi, piena di difetti, è già stato scritto. L’obiettivo duplice della misura resta però valido: il Rdc doveva essere, e in parte è, un sussidio contro la povertà, da un lato, e una misura di politica attiva del lavoro, dall’altro.
Le ultime modifiche proposte dalla maggioranza, però, vanno in tutt’altro senso. Prima di affrontarle nel dettaglio, è il caso di chiarire subito il loro effetto e il loro valore politico: gli emendamenti che privano del sussidio gli under-30 senza titolo di studio e che eliminano il requisito della congruità della proposta di lavoro sono uno schiaffo alla miseria e un favore agli sfruttatori. Vediamo perché.
Addio congruità delle offerte di lavoro
Il reddito di cittadinanza dovrebbe rappresentare un sostegno, affinché si possa affrontare con relativa serenità la ricerca di un impiego, anche rifiutando proposte di lavoro ai limiti dello sfruttamento. Si viene tuttavia privati del sussidio se non si accettano offerte di lavoro congrue, ossia proposte che abbiano una certa coerenza con la formazione e le esperienze maturate. Nel concetto di congruità è compresa anche la distanza del luogo di lavoro dal domicilio: "Entro 100 chilometri di distanza dalla residenza del beneficiario o comunque raggiungibile in cento minuti con i mezzi di trasporto pubblici", se si tratta della prima offerta, o "ovunque collocata nel territorio italiano", qualora sia la terza offerta o se il reddito di cittadinanza sia già stato rinnovato.
Già questa previsione normativa smentisce la retorica dei percettori del RdC sul divano, senza voglia di lavorare. Se arriva un’offerta di lavoro congrua, la scelta è obbligata: o si accetta il lavoro o si perde il sussidio.
Ma la modifica che arriva a firma di Maurizio Lupi fa di più, eliminando soltanto una parola: "congrua". In questo modo, chi riceve il reddito di cittadinanza lo perderebbe rifiutando una qualunque offerta di lavoro, anche per un impiego per il quale non è formato, anche per uno stipendio ridicolo, anche per un posto di lavoro dall’altra parte dell’Italia.
La povertà non è una colpa individuale
Non è l’unica modifica al reddito di cittadinanza. Qualche settimana dopo le esternazioni del ministro Valditara sulla necessità di legare il sussidio all’assolvimento dell’obbligo scolastico, ecco arrivare l’emendamento che applica quella linea: non sarà erogato il RdC ai disoccupati tra i 18 e i 29 anni che non abbiano terminato la scuola dell'obbligo, salvo non siano iscritti a percorsi di formazione per conseguire il titolo di studio.
L’argomento del ministro però non regge alla prova dei fatti: con il reddito di cittadinanza già era possibile seguire corsi di formazione, visto che il percettore, spesso insieme al suo nucleo familiare, stipula un Patto per l’Inclusione sociale o un Patto per il lavoro, che comprendono anche obblighi di formazione, che però sono valutati individualmente, in base a bisogni, potenzialità e difficoltà delle persone. Con questo approccio, insomma, si riconosceva la necessità di un impegno collettivo, complesso, istituzionale, basato sulla persona. Porre invece come condizione di accesso la frequenza di corsi di formazione, con la minaccia di togliere mezzi di sostentamento a chi non abbia titoli di studio, è una forma punitiva, che nulla ha a che fare con educazione ed emancipazione.
A questa modifica si aggiunge il più banale taglio delle mensilità: gli "occupabili", nel 2023, potranno ricevere il sussidio per un massimo di sette mensilità.
Il problema non sono i soldi: per le imprese ci sono
Ignorando gli intenti punitivi e retorici, pur sbandierati, si potrebbe pensare che i tagli alle erogazioni del reddito di cittadinanza derivino dalla mancanza di soldi: la scarsità di fondi è in effetti una delle ragioni per cui molte misure sociali vengono sacrificate.
Tra le misure del governo, però, ce n’è anche una che riguarda le imprese che assumono percettori di RdC. Una delle misure più utilizzate, negli ultimi anni, per stimolare l’occupazione è infatti la decontribuzione: di fatto, entro una certa quota e a determinate condizioni, lo Stato paga i contributi previdenziali al posto delle imprese. Il governo Meloni ha modificato anche questa previsione del reddito di cittadinanza, aumentando la soglia massima per l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali da 6mila a 8mila euro. E, tra chi beneficerà di questo ulteriore sconto contributivo, ci saranno anche quei datori di lavoro che proporranno offerte non congrue.
Il libero mercato vale solo per i poveri
I sacrifici, infatti, non valgono per tutti, così come le regole del libero mercato. Nei libri di economia, non senza un certo semplicismo, si spiega infatti che il prezzo di un bene viene fissato dall’incontro tra domanda e offerta: se c’è molta domanda e poca offerta, il prezzo è destinato a salire. La visione non è così semplice: specie sul mercato del lavoro, in cui non è in vendita una merce, ma si offrono tempo ed energie delle persone, uno stipendio è fissato in base a molte variabili. Una di queste è che la retribuzione sia proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque sufficiente a garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa (così recita la Costituzione, all’articolo 36).
Sopra questo minimo di dignità, è il mercato a decidere se un’ingegnera sia pagata di più rispetto a un tornitore, o almeno così si è spesso detto quando si dovevano rimproverare i giovani di aver scelto facoltà umanistiche o senza troppi sbocchi lavorativi. Eppure tutti questi discorsi semplicistici sul libero mercato supremo regolatore delle nostre vite non sono mai rivolte agli imprenditori che, con una certa frequenza, si lamentano della gente che non ha voglia di lavorare, o che preferisce il RdC alla fabbrica (come se fosse possibile, visto che, come già visto, non si può rifiutare un’offerta congrua salvo non perdere il sussidio). Nessuno che risponda, a certi soggetti che affollano i talk show: è il libero mercato, bellezza.
Tra umiltà e umiliazione: i diritti non sono concessioni
Al contrario, si può dire, come fa Lollobrigida, che si devono accettare anche lavori umili. Ma che cosa intende il ministro? Lo spiega subito dopo, riferendosi ai lavori che fanno gli immigrati ma non gli italiani, con le parole "noi importiamo schiavi quando apriamo i flussi dall’estero". L’umiltà a cui si riferisce Lollobrigida non è diversa dall’umiliazione di cui parlava Valditara come di un «fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità», salvo rettificare, di fronte alle polemiche, in favore del concetto di umiltà.
In italiano, l’umiliazione è un’azione che si subisce, l’umiltà è una condizione che si vive. Se la si intende come virtù, l’umiltà è consapevolezza dei propri limiti e assenza di arroganza, in altri casi, è riverenza, sottomissione. In latino il termine humilitas si può tradurre sia come umiltà, sia come umiliazione e la radice della parola deriva da humus, terra. Essere umili o essere umiliati è insomma la vicinanza alla terra, al basso, e la confusione del ministro Valditara, come il riferimento agli schiavi del ministro Lollobrigida, dovrebbero ricordarci che non sempre l’umiltà è una virtù, ma più spesso è un’intima convinzione che deriva da un’umiliazione prolungata.
Quelle che stiamo vedendo sul reddito di cittadinanza sono modifiche che si pongono proprio in questi termini: l’umiliazione dei poveri, attraverso la trasformazione del diritto a un’esistenza libera e dignitosa in una concessione, che arriva ora dallo Stato, ora dall’imprenditore, in una narrazione del mercato che vede i lavoratori come un costo, per l’azienda che li assume, invece che come fattori di produzione, partecipi del destino dell’impresa, ma raramente del suo profitto.