I dati non potrebbero essere più eloquenti di così: più del 40% degli adolescenti pensa che una donna possa sottrarsi da un rapporto sessuale se lo vuole, il 30% pensa che le ragazze possano contribuire a provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire o di comportarsi, per il 20% una donna ubriaca o sotto effetto di sostanze stupefacenti può comunque esprimere il consenso. È il quadro che emerge dal rapporto di Save the Children “Le ragazze stanno bene? Indagine sulla violenza di genere onlife in adolescenza”, realizzato in collaborazione con Ipsos. Numeri che dimostrano non solo quanto siano ancora radicati gli stereotipi sulla violenza di genere in Italia, ma anche che è necessario agire soprattutto sulla prevenzione e l’educazione.
Subito dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, si era parlato molto della necessità di introdurre corsi di educazione all’affettività nelle scuole, generando un ampio dibattito sulla loro efficacia. Il 22 novembre scorso, il ministero dell’Istruzione aveva firmato una direttiva riguardante i percorsi progettuali per le scuole in tema di “Educazione alle relazioni”, con l’investimento di 15 milioni di euro del Pnrr. Tuttavia, la direttiva è abbastanza vaga: l’educazione si fa solo alle superiori, le scuole hanno totale autonomia di scelta dei percorsi da intraprendere e serve il consenso dei genitori per avviarli. Inoltre, è un insegnante a doversi fare carico di questa responsabilità (anche ricevendo una formazione specifica) e al massimo può avvalersi di esperti esterni. Di fatto, non è stato indetto nessun obbligo per l’educazione affettiva nelle scuole e ogni istituto può affidarla a chi vuole, come già succede per l’educazione sessuale, per la quale non è raro che i corsi siano tenuti, ad esempio, da associazioni antiabortiste o di ispirazione religiosa.
Nonostante l’investimento e l’impegno del governo, la situazione rimane pressoché uguale a quella attuale: c’è la totale discrezionalità dei singoli dirigenti scolastici e docenti, i corsi affidati a esperti esterni hanno bisogno di risorse economiche che le scuole non hanno e l’Italia resta uno dei pochi Paesi in Europa dove non c’è l’obbligo dell’educazione sessuale. Questo tema, nello specifico, continua a essere un vero e proprio tabù nella scuola italiana, nonostante altri dati ci dicano quanto sarebbe importante introdurla in tutte le scuole, come quelli che riguardano le infezioni sessualmente trasmissibili (Ist). Ogni anno, un adolescente su 20 contrae una Ist e nel 2023 più della metà delle nuove infezioni di Hiv interessava giovani con un’età compresa tra i 15 e i 24 anni. Proprio perché non c’è alcun obbligo, inoltre, l’Italia continua a ignorare le linee guida dell’Unesco sulla cosiddetta “educazione sessuale estensiva” (comprehensive sexual education), che comprende molti altri insegnamenti che non siano il “semplice” evitare le Ist o una gravidanza, come il rispetto delle differenze di genere e del consenso.
Il rapporto di Save the Children mostra però che per arginare il problema della violenza di genere, e quindi anche degli stereotipi che la alimentano, è necessario anche capire in profondità lo stile di vita degli adolescenti. Oggi molte forme di violenza si esplicitano attraverso la tecnologia: il 20% ha subìto pressioni per inviare foto intime, il 15% le ha viste divulgate senza il proprio consenso. Il 32% crede sia normale chiedere di condividere la password del telefono o dei social. Come ha spiegato la ricercatrice e attivista Silvia Semenzin, l’educazione digitale è fondamentale, ma spesso si limita all’uso degli strumenti tecnologici o è offerta da adulti che non sono competenti e vivono i social in maniera del tutto diversa da quella dei giovani. “L’educazione civica al digitale è un’educazione al comportamento che si ha su internet che non significa altro che educare all’empatia, al rispetto, un’educazione socio-emotiva”, aggiunge Semenzin nel rapporto.
I social svolgono un ruolo importante nell’amplificazione della violenza e nell’esposizione degli adolescenti, soprattutto maschi, a contenuti misogini e antifemministi. Tuttavia, le risposte istituzionali tendono a confondere lo strumento con la causa, individuando Internet e la mancanza di relazioni autentiche tra i giovani come i colpevoli di una ipotetica degenerazione del fenomeno. Se è vero che l’isolamento fra gli adolescenti è un problema concreto, pensare che i social, i telefonini o la trap (citati in un recente convegno organizzato dalla regione Veneto come corresponsabili della violenza sulle donne) significa continuare a guardare altrove. I numeri degli adolescenti, infatti, non si discostano poi troppo da quelli degli adulti: secondo l’Istat, il 39,3% degli uomini pensa che una donna possa sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole e quasi il 20% pensa che la violenza sia provocata dal modo di vestire delle donne.
In questo quadro, l’educazione all’affettività si mostra necessaria, ma deve essere un progetto ben pensato, omnicomprensivo e non basato sull’onda della necessità di una rapida risposta mediatica. Gli adolescenti di oggi vivono una realtà più complessa e stratificata di quella delle generazioni precedenti, ma questo fatto non può trasformarsi in una colpa da espiare della quale gli adulti, e non solo gli insegnanti, non hanno alcuna responsabilità. Gli appelli al “futuro”, alla “scuola” e all’“educazione” lasciano il tempo che trovano se si continua a relegare i giovani in una categoria astratta e indipendente dal resto della società. Ma la spaventosa somiglianza tra i numeri dell’indagine di Save the Children e quelli dell’Istat ci mostra un’altra realtà: non stanno imparando dai trapper o dagli influencer, stanno imparando da noi.