“I numeri degli iscritti all’Ugl sono privi di riscontro”, ecco la relazione che accusa il segretario Capone
Il 12 febbraio scorso, davanti alla quarta sezione penale del tribunale di Roma, è cominciato il processo contro il segretario dell'Ugl Paolo Capone, per le presunte irregolarità nelle comunicazioni al ministero del Lavoro, sui dati degli iscritti al sindacato "di destra". Capone è chiamato a rispondere del reato di falso ideologico in atto pubblico. Il procedimento riguarda i numeri, degli anni che vanno dal 2015 al 2019, periodo nel corso del quale a ricoprire la carica di vicesegretario dell'Ugl è stato anche Claudio Durigon, attuale sottosegretario al Lavoro e uomo forte della Lega nel Centro e Sud Italia. Durigon non è coinvolto nel processo e non è mai stato indagato per questa vicenda.
L'indagine che ha portato Capone sul banco degli imputati nasce da un esposto di un ex Consigliera nazionale dell'Ugl, Maria Rosaria Selliti ed è stata rivelata per la prima volta da Fanpage.it nell'ambito dell'inchiesta Follow the Money, sui rapporti tra il sindacato e il partito di Matteo Salvini. Negli anni presi in considerazione, il numero degli iscritti autocertificato dall'Ugl al ministero del Lavoro è oscillato, tra circa un milione e 700mila e un milione e 800mila. Secondo l'esposto, si tratterebbe di un dato largamente sovrastimato, rispetto alla realtà. La quantità dichiarata di aderenti alle diverse confederazioni sindacali serve al ministero per valutare la loro rappresentatività. Da essa, deriva la possibilità di accedere ai tavoli di trattativa governativi, ma anche la concessione di diversi incarichi pubblici retribuiti, come quelli nei Consigli di Vigilanza di Inps e Inail. Nella tesi della querelante, questi posti sarebbero stati ottenuti anche sulla base di dati falsi o comunque privi di un effettivo riscontro.
Il cuore del lavoro dei pm – durato oltre due anni – si trova nella relazione del consulente tecnico dell'accusa, che Fanage.it ha potuto visionare. La conclusione dell'attività investigativa è che i numeri degli iscritti comunicati dall'Ugl al ministero del Lavoro sono privi di riscontro. C'è quindi un'incongruenza tra dati forniti autocertificati dal sindacato in sede ufficiale e l'incapacità – di fronte alle ripetute richieste del pubblico ministero – di fornire le prove e le pezze d'appoggio, per dimostrare che questi corrispondano alla reale consistenza della confederazione.
Il caos delle tessere
Per arrivare a questa conclusione, il perito si è concentrato sulla quantità delle tessere rilasciate dall'Ugl – negli anni presi in considerazione dall'inchiesta -, legato al regolare versamento delle quote associative. Il numero delle tessere rilasciate di anno in anno infatti sarebbe l'unico in grado di comprendere tutte le diverse modalità, con cui è possibile iscriversi al sindacato. Peccato che nemmeno l'Ugl sa (o quantomeno non è stata in grado di provare) quanti sono gli effettivi tesserati.
Dall'interrogatorio dell'attuale vicesegretario Luca Malcotti infatti è emerso come "non esiste una procedura formale di raccolta dati, vengono acquisti in vari modi formali e informali". E soprattutto, "i dati non sarebbero informatizzati e archiviati in modo da poter ricondurre la tessera al singolo iscritto". In altre parole, non esiste un database che permetta di associare ogni tessera rilasciata in modo univoco a un iscritto al sindacato. E neppure – annota il consulente dei pm – è possibile stabilire con certezza il numero effettivo di tessere rilasciate ogni anno.
Di fronte a questo, nella consulenza si sottolinea un'incongruità tra "l'assenza di sistemi di memorizzazione dei dati degli associati", con la necessità "di verificare la sussistenza e il mantenimento delle condizioni di validità dell'iscrizione", come il regolare versamento delle quote. Insomma, ci si chiede nella relazione, senza un sistema che tenga traccia degli associati, come possono gli uffici della confederazione stabilire chi ha diritto ogni anno ad aderire e chi no? E si prosegue con un'altra domanda, che arriva al cuore della questione: come è possibile certificare al ministero il numero degli iscritti, suddiviso tra le diverse categorie, senza avere la possibilità di verificare, con una documentazione precisa, il numero degli associati?
Di fronte a questi interrogativi, i documenti prodotti dall'Ugl nel corso delle indagini non avrebbero dissipato i dubbi, ma anzi sembrerebbero confermare il caos sulle cifre. Si legge nella relazione: "Sono stati prodotti elenchi nominativi privi delle generalità degli iscritti, del codice fiscale, non è stato fornito l'elenco delle tessere confederali emesse/rinnovate in ciascun anno di interesse, non è stato prodotto l'elenco che associa la tessera al nominativo dell'iscritto al sindacato".
Il caso dei pensionati
Nell'unico caso in cui è stato possibile effettuare una controprova efficace con dati esterni, è risultata un'ampia differenza tra i numeri autodichiarati dall'Ugl al ministero del Lavoro e quelli reali. Si tratta della federazione dei pensionati, per cui è possibile ricavare la quasi totalità del numero degli iscritti reali al sindacato, in base alle trattenute effettuate dall'Inps sulle retribuzioni. Ecco, tra il 2015 e il 2019 all'Istituto di previdenza risultano poco più di 58mila aderenti annuali alla confederazione, a fronte di cifre comunicate al ministero che variano da un minimo di 462.555 nel 2017, a un massimo di 511.893, nel 2015.
Come anticipato sopra, la conclusione della consulenza è impietosa: "non appaiono congruenti, sul piano logico […] le certificazioni sul numero degli iscritti […] al ministero del Lavoro dal sindacato, con l'apparente incapacità […] dello stesso di fornire/ documentare il sottostante elenco delle tessere confederali (in corso di validità negli anni di interesse) emesse/ rinnovate e dei correlati nominativi (completi di dati identificativi: luogo, data di nascita, codice fiscale) degli iscritti/associati".
Nel corso dell'udienza predibattimentale del 12 febbraio, gli avvocati del segretario dell'Ugl Capone hanno sollevato una questione preliminare, sostenendo che non basta eccepire la veridicità delle autodichiarazioni, se non si contesta un beneficio per cui queste sarebbero state fatte. I pm si sono opposti, ritenendo che per i reati di falso non sia necessario dimostrare un danno effettivamente verificato, ma basta il solo fatto di non dichiarare il vero. Il prossimo 6 maggio il giudice dovrà sciogliere la questione e decidere se portare o no il processo nella fase del dibattimento vero e proprio.