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I giovani italiani esclusi da studio e lavoro: perché siamo il paese dei Neet

Negli ultimi anni il tasso medio dei Neet è aumentato in maniera sensibile nei paesi dell’Ocse, ma è l’Italia a vantare il primato. Secondo il rapporto “Education at glance”, nel nostro paese oltre un terzo dei giovani tra i venti e i ventiquattro anni non ha un impiego e non studia – una percentuale vicina al 35%, aumentata di dieci punti tra il 2005 e il 2015.
A cura di Claudia Torrisi
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Quello dei Neet, quei giovani che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in un percorso di formazione, è un fenomeno globale, che interessa e preoccupa tutti i paesi dell'Ue. Negli ultimi anni, il tasso medio è aumentato in maniera sensibile, registrando tra il 2007 e il 2015 un incremento dell'1,3%. Nonostante tutti i paesi debbano fare i conti con il problema, è l'Italia a vantare il primato della crescita di coloro che sostanzialmente sono esclusi dal mondo del lavoro e della formazione. Secondo il Rapporto dell'Ocse "Education at glance", infatti, nel nostro paese oltre un terzo dei giovani tra i venti e i ventiquattro anni non ha un impiego e non studia – una percentuale vicina al 35%, aumentata di dieci punti tra il 2005 e il 2015. Nel resto dei paesi dell'Ocse la media si attesta al 15% (in Islanda, paese più virtuoso seguito da Olanda, Germania, Lussemburgo, Giappone e Norvegia, è del 5%).

Tra il 2007 e il 2015, la percentuale dei Neet è cresciuta in Italia di 7,4 punti, passando dal 19,5% al 26,9%. Tranne che in Grecia, in tutti gli altri paesi l'aumento è stato inferiore al nostro – in alcuni addirittura, il fenomeno ha subito un'inversione di tendenza, come in Gran Bretagna, dove sono scesi di un punto percentuale, e in Germania (-3,5%).

Se da un lato l'aumento dei Neet è dovuto sicuramente alla crisi economica che ha attraversato l'Italia, l'Ocse ha fatto notare che anche altri paesi – come, ad esempio, Grecia e Spagna – hanno visto diminuire il tasso di occupazione giovanile in maniera simile o addirittura maggiore a quanto accaduto in Italia, senza però registrare un'impennata così evidente dei Neet. Il punto, probabilmente, è che i giovani disoccupati in questi paesi sono stati reinseriti nel sistema dell'istruzione: in Grecia, ad esempio, la percentuale di coloro che hanno tra i venti e i ventiquattro anni iscritti a un corso di studi è cresciuta del 14%, in Spagna del 12%. In Italia questa categoria, invece, ha registrato un aumento solo del 5%. Sostanzialmente, chi resta disoccupato nel nostro paese non vede l'università come una possibile opzione per inserirsi nel mercato del lavoro, e resta ai margini.

 

Come siamo diventati il "paese dei Neet"?

Un'elaborazione del Centro studi ImpresaLavoro ha mostrato come dal 2007 al 2015 la disoccupazione giovanile in Italia sia aumentata di 17,4 punti percentuali, passando dal 21,4% al 38,8%. La crescita percentuale degli italiani di età tra i quindici e i ventiquattro anni che sono senza un impiego ma che sarebbero disponibili a lavorare risulta superiore a quella di quasi tutti gli altri Paesi europei – escludendo Spagna e Grecia. Il tasso medio dei paesi Ocse era a fine 2015 del 19,7%. Come evidenziato da Alessandro Rosina, curatore del Rapporto Giovani dell'Istituto Toniolo e autore di "NEET. Giovani che non studiano e non lavorano", il nostro è "uno dei paesi che meno hanno aiutato i giovani a proteggersi dai rischi della crisi. La combinazione di carenze strutturali persistenti ed impatto congiunturale della crisi ha portato l'Italia ad essere tra i paesi in Europa con più alta percentuale di under trenta che non studiano e non lavorano e che non hanno formato una propria famiglia con figli". La conseguenza è che "anziché essere protagonisti positivi di processi di innovazione e inclusione che rendono più competitiva l'economia e più solida la società, si trovano relegati ai margini, dipendenti a lungo dai genitori, con progetti professionali e di vita bloccati".

Un'indagine a livello nazionale dell'associazione We World ha analizzato il fenomeno Neet e ne ha tratto anche un profilo psicologico, in cui il tratto principale sembra essere la rassegnazione nell'essere esclusi dal mondo del lavoro. Sono giovani avvolti da un opprimente senso di precarietà, che smettono di mandare il loro curriculum in giro, non provano ad iscriversi a un corso e sostanzialmente si isolano. Ma c'è anche un altro dato significativo: i soggetti più a rischio di diventare Neet vengono da famiglie in cui i genitori possiedono bassi titoli di studio o non hanno concluso le scuole. Un ulteriore riprova del totale blocco della mobilità sociale nel nostro paese.

Esclusi dal mercato del lavoro, i giovani italiani, però, faticano anche a inserirsi in un percorso formativo. Secondo uno studio della Banca d'Italia su dati forniti dall'Ocse e dal Ministero dell'Istruzione, la probabilità di entrare nel sistema universitario in Italia è di circa il 41%, contro il 60 della media Ocse. Anche il confronto tra il tasso di laurea è rilevante: 24% contro 42%. "Circa la metà del differenziale nel tasso di ingresso – si legge nel report – dipende dal modesto tasso di iscrizione di chi ha almeno 25 anni, cioè di coloro i quali si iscrivono all’università alcuni anni dopo il conseguimento del diploma, dopo aver eventualmente sperimentato esperienze di lavoro o mentre già lavorano". E questa circostanza si lega in parte "alle caratteristiche dell’offerta formativa, che vede una sostanziale assenza di corsi di carattere professionalizzante, dai quali proviene invece, nella media europea, circa un quarto dei giovani in possesso di un titolo terziario". Così, specialmente gli studenti provenienti dagli istituti tecnici e professionali sono più portati a lasciare i corsi e a contribuire all'incremento del tasso di abbandono universitario italiano, che nel 2013 ha toccato quota 45%, una delle più alte in Europa.

Al di là dei piani formativi, comunque, c'è anche un dato economico che pesa sulla scelta di non intraprendere un percorso universitario. Stando a quanto rilevato dal rapporto dell'Ocse, in Italia circa l'80 per cento degli studenti iscritti a un ateneo non riceve alcun aiuto finanziario o sostegno per le tasse d'iscrizione sotto forma di borse di studio o prestiti, e solo uno ragazzo su cinque usufruisce di una borsa di studio. Questo nonostante le tasse d'iscrizione ai corsi di laurea di primo livello in Italia si collochino al nono livello più alto tra i Paesi con dati disponibili.

Dall'altro lato nel nostro paese la spesa pubblica l'istruzione è scesa del 14% tra il 2008 e il 2013. Un calo che riflette "non solo una riduzione totale della spesa pubblica in termini reali, ma anche un cambiamento nella distribuzione della spesa su altre priorità", ha rilevato l'Ocse, che ha posizionato l'Italia tra i paesi con i maggiori tagli all'istruzione nel confronto con la riduzione della spesa pubblica complessiva, che nello stesso periodo è stata solo del 2%. Per avere un'idea della discrepanza della situazione italiana con quella degli altri paesi, basti pensare che nel 2013 è stato destinato all'educazione il 4% del pil, contro una media Ocse del 5,2%.

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