I Cpr per i migranti in Italia non funzionano: nel 2023 solo il 10% dei rimpatri e costi fino a 93 milioni di euro
In Italia il sistema dei centri di permanenza per il rimpatrio non funziona. A restituire una fotografia di un "modello fallimentare e disumano" è il rapporto realizzato da ActionAid con il Dipartimento di Scienze Politiche dell’università di Bari.
Si intitola "Trattenuti 2024" e prende in esame l'evoluzione del sistema di detenzione per gli stranieri richiedenti asilo, la gestione e i costi dei cpr, fino ai deludenti numeri sui rimpatri che finora non sembrano giustificare le abnormi cifre spese per mantenere queste strutture.
Il rapporto parte da un numero, quello delle trentadue morti registrate all'interno dei centri dalla loro apertura e da una considerazione: reperire dati e informazioni attendibili sul funzionamento della detenzione amministrativa degli stranieri in Italia è tutt'altro che semplice. Spesso le informazioni mancano o se ci sono, risultano inaccessibili.
Dal lavoro condotto da ActionAid emerge però un quadro allarmante. L'analisi si concentra sugli undici cpr attivi nel nostro Paese nell'ultimo anno. Strutture collocate in aree molto diverse ma tutti accomunati da alcuni elementi: "spazi invivibili, costi fuori controllo e gestione caotica", si legge.
Dal 2014 a oggi circa cinquantamila persone sono state trattenute all'interno di centri "che violano i diritti umani e sono un disastro per le finanze pubbliche". Eppure queste strutture che nel rapporto vengono descritte come "modello di disumanità, gestione incontrollata e fallimentare", sono le stesse a cui si ispirano i centri per il trasferimento dei migranti in Albania voluti dal governo Meloni.
Il rapporto si interroga sulla reale efficacia di questa politica detentiva che finora si è tradotta in un flop. Basti pensare che nel 2023 dai cpr sono stati rimpatriati solo il 10% dei migranti che avevano ricevuto un ordine di espulsione, su un totale di 28mila persone. "Una politica che ottiene il 10% dei risultati attesi è inammissibile, a meno che non si riconosca che l’obiettivo non è quello esplicito del rimpatrio, ma è quello di assimilare le persone migranti ai criminali, erodendo le basi del diritto d’asilo e del sistema di accoglienza", è il commento di Fabrizio Coresi, esperto di migrazioni per ActionAid.
Ma i record negativi non riguardano solo i rimpatri, ma anche e soprattutto i costi. Finora il peso dei cpr sulle casse dello Stato è stato tutto fuorché contenuto. Negli ultimi sei anni, tra le spese di gestione e quelle di manutenzione ordinaria e non, il costo dei centri ha sfiorato la cifra folle di 93 milioni di euro. Di questi, solamente 19 milioni sono stati elargiti nel 2023.
E il quadro appare ancora più disarmante se si guarda alle migliaia di euro spese per ogni migrante trattenuto all'interno dei cpr. Si stima che ogni anno il costo medio per un posto sia di circa 28mila euro, ma i numeri variano a seconda dei centri. Ad esempio, nel cpr di Brindisi, che ha una capienza di 14 posti, la spesa sale a 71mila euro a migrante. Facendo rapidamente qualche calcolo, si arriva a quasi un milione solamente per il centro pugliese. Anche a Torino i costi sono alti, con circa 40mila euro a posto.
Ma queste cifre, spiega il report, sono addirittura sottostimate, perché dal computo delle spese mancano quelle "accessorie", cioè quei soldi utilizzati, ad esempio, per pagare vitto e alloggio delle forze dell'ordine impiegate nei centri.
A tutto questo si aggiunge il progressivo allungamento dei tempi di detenzione dei migranti all'interno dei cpr, che finisce per avere delle ricadute non solo sulle condizioni di vista delle persone trattenute, ma anche sugli stessi costi perché incrementa le spese destinate alla manutenzione. Se nel 2018 i giorni di permanenza media si aggiravano attorno ai 33, nel 2022 sono saliti a 40, per poi scendere a 37 nel 2023.
"L’investimento nei Cpr ha prodotto una crescita dei costi umani ed economici delle politiche di rimpatrio. Dal 2017 si rimpatria di meno, a costi più alti e in maniera sempre più coercitiva", spiega Giuseppe Campesi, professore all’Università di Bari. “"l ricorso a queste strutture ha già dimostrato di essere fallimentare, tuttavia, si continuano a presentare i centri di detenzione come una soluzione per aumentare il numero dei rimpatri. I dati raccolti, invece, dicono l’esatto contrario", conclude.