I centri di rimpatrio che piacciono al governo Meloni non funzionano e violano i diritti dei migranti
I centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) sono nati nel 1998. Allora si chiamavano centri di permanenza temporanea e assistenza, e negli anni hanno cambiato nome più volte: nel 2017, con il governo Gentiloni, da "centri di identificazione ed espulsione" sono diventati gli attuali Cpr. Sono strutture in cui le persone migranti vengono trattenute prima di essere rimpatriate. In teoria gli ‘ospiti' devono restarci il tempo minimo necessario per l'identificazione e il rimpatrio, ma nella pratica spesso le cose non vanno così.
Il governo Meloni a dicembre ha stanziato, con la legge di bilancio dello scorso dicembre, circa 42 milioni di euro da usare fino al 2025 per ampliare la rete dei Cpr. Con l'ultimo decreto sull'immigrazione, il governo ha previsto dei contratti semplificati per velocizzare questi lavori. Oggi i Cpr sono dieci in tutta Italia, e possono ospitare fino a 1378 persone. Andrea Oleandri, direttore operativo della Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild), ha spiegato a Fanpage.it cosa non funziona nel sistema dei centri di rimpatrio.
Partiamo da una frase recente del ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi. Presentando il nuovo decreto del governo, ha detto che il problema dei Cpr è che vengono "vandalizzati" da chi si trova all'interno, e che i Cpr "non sono luoghi piacevoli", ma per uscirne in pochi giorni "basterebbe collaborare" e farsi identificare.
In realtà, devo dire che sono effettivamente i due problemi principali del sistema Cpr. Poi chiaramente il ministro fa una lettura sua.
In che senso?
La questione è questa: i Cpr sono luoghi dove c'è la privazione totale della libertà, e questa non legata a un reato, ma a uno status soggettivo della persona. Esistono da 25 anni, eppure ancora non hanno uno statuto. A differenza delle carceri, non hanno un ordinamento, un regolamento… non ci sono dei diritti espliciti per cui la persona detenuta sa che può fare una cosa, e non può farne un'altra. È tutto lasciato alla discrezionalità di chi gestisce i centri e di chi ci lavora. Non essendoci regole, le persone detenute praticamente hanno un tempo di vita sospeso. Sono dei corpi messi in un posto, e tenuti in quel posto per un tempo indefinito – c'è un massimo di 90 giorni previsto per legge, ma non sanno se ci staranno un giorno, dieci giorni, tre mesi… E all'interno non fanno niente.
Com'è l'interno di un Cpr? E cosa c'entra con le parole di Piantedosi?
Ci sono le stanze, c'è un cortile in cemento con alte recinzioni… solo spazi detentivi. Non c'è una biblioteca, un campetto da calcio, un luogo di culto, niente. Quindi: sono privati della libertà personale, non sanno cosa li aspetta, non possono fare nulla, e in più sono persone in una situazione delicata dal punto di vista psicologico. Il loro progetto migratorio magari è fallito, e hanno questo peso. È facile che non accettino questa loro condizione e decidano di protestare. Atti di violenza o autolesionismo accadono anche nelle carceri, spesso sono un modo per richiamare l'attenzione. Per questo, come dice il ministro Piantedosi, "vandalizzano" le cose.
E sul fatto che "basta collaborare" per uscirne?
Banalmente: che vantaggio ha la persona a collaborare? Per essere rimandata nel proprio Paese? Infatti il Cpr è un sistema che non funziona, hanno un'efficienza bassissima. L'Italia rimpatria meno della metà delle persone che vengono trattenute.
Cos'è che non funziona di questo modello?
La cosa è: tu trattieni una persona per tre mesi perché speri che se la tratti abbastanza male alla fine lei deciderà di dirti "ok va bene, è vero, sono di quel Paese, rimpatriami perché non ce la faccio più"? È inumano, contro la convenzione europea sui diritti dell'uomo. Si sa da tempo: o il riconoscimento della persona lo fai subito, oppure la puoi tenere anche due anni ma non ce la farai. E non solo perché non scopri di che Paese sono: magari non puoi fare il rimpatrio perché non hai accordi di remissione con i Paesi di provenienza. E queste persone vengono comunque trattenute, spesso per tutto il tempo possibile, senza motivo.
Quindi diventa solo una detenzione ‘punitiva', senza avere commesso un reato?
Esatto. E non finisce qui. Spesso le persone transitano in carcere, magari per sei mesi o un anno. Quando escono dal carcere, la maggior parte delle volte finiscono in Cpr. Ma se tu non sei riuscito a fare un riconoscimento in un anno di carcere, come pensi che ce la farai con tre mesi in Cpr?
Voi come associazione avete visto diversi centri per il rimpatrio?
Sì, all'interno si vedono cose incredibili. In alcuni Cpr, tra il bagno e la stanza dove le persone dormono non ci sono le porte. Per ragioni di sicurezza non meglio specificate. Quindi chi va in bagno lo fa davanti a tutti gli altri, chi sta nella stanza sente gli odori… è una condizione inumana. Un altro esempio è quello dei telefoni: nessun documento dice che sono vietati all'interno dei centri, ma nella pratica non gli vengono dati, oppure gli vengono rotte le videocamere così non possono mandare foto e video all'esterno.
Ci si può rivolgere a un giudice, in caso di abusi?
Di nuovo, il sistema non ha regole precise. In carcere c'è il magistrato di sorveglianza, nel Cpr bisogna rivolgersi a un giudice di pace. È un giudice che tra le sue competenze non ne ha nessun'altra simile a questa. Magari quando è nata la misura non si voleva creare un sistema giurisdizionale specifico, ma dopo 25 anni è una cosa che serve.
Chi gestisce i Cpr?
I privati. Sono strutture in cui lo Stato trattiene delle persone, e vengono affidate a privati. Il vero business dell'immigrazione sta lì dentro. Ormai i Cpr in Italia sono gestiti perlopiù da multinazionali, che a volte operano in settori che non c'entrano niente con l'accoglienza, ma si buttano sui Cpr perché c'è un guadagno.
Qual è il problema ad affidare la gestione dei Cpr a delle aziende private?
Porta a una massimizzazione del profitto: tagli di servizi, tagli di personale, i medici all'interno sono medici che lavorano per l'ente gestore e non è detto che abbiano la volontà di denunciare certe situazioni… Adesso, con questo ulteriore allargamento del numero di Cpr voluto dal governo, la cosa dovrebbe interrogarci. Abbiamo intenzione di rinchiudere molte più persone in un sistema che non ha garanzie?
Quali sono le multinazionali che gestiscono Cpr in Italia?
Una è la Ors. È una multinazionale svizzera enorme, che gestisce i Cpr di Roma e di Torino, anche se questo è chiuso da qualche giorno (il Cpr di Torino è stato chiuso perché reso inagibile da una serie di rivolte a febbraio, le persone al suo interno sono state trasferite a Trapani, Potenza e Macomer in Sardegna, il contratto con Ors sarà sospeso, ndr). Quello di Torino era gestito fino al 2021 da Engie, una multinazionale francese dell'energia che però ha deciso di buttarsi in questo campo. Nei tre anni 2018-2021, per dieci centri lo Stato ha speso 44 milioni di euro, con gare di appalto al massimo ribasso.
È questo il problema più grave dei centri per il rimpatrio?
Il problema è pensare che i Cpr siano la soluzione al problema. Non lo sono. Sono un sistema costosissimo, inefficace e che viola i diritti delle persone che ci passano.
Quali alternative ci sono?
Noi abbiamo un progetto pilota, c'è in Italia e in alcuni altri Paesi d'Europa. Si tratta di prendere in carico la persona, semplicemente. Molte delle persone che entrano in un Cpr potrebbero fare una richiesta d'asilo, o di permesso di soggiorno. Non lo fanno perché non conoscono le leggi, oppure perché si imbattono nel sistema Cpr e non ne escono più. Noi in tre anni abbiamo preso in carico circa 160 persone con questo progetto, e la maggior parte hanno ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Serve un accompagnamento su due piani: quello legale e quello psicologico. A volte le persone hanno persino voglia di ritornare nel loro Paese, ma non lo accettano perché per tornare servono delle risorse che non hanno. Economiche, ma anche psicologiche.
Il governo Meloni ha deciso di espandere il sistema dei Cpr, ma anche il centrosinistra negli anni li ha sostenuti, no?
I primi centri sono nati con una legge sull'immigrazione del centrosinistra (governo Prodi, ndr). C'è stata una volontà politica trasversale di gestire l'immigrazione in questo modo. Poi certo, ci sono stati alti e bassi: nel 2011 il limite massimo di permanenza nei centri fu alzato a 18 mesi, mentre nel 2014 fu ridotto a 90 giorni (poi il decreto Sicurezza del 2018 lo ha portato a 180 giorni, e nel 2021 è tornato a 90 giorni, ndr). Ma è un modello diffuso in tutta Europa, e non funziona da nessuna parte. In Italia, comunque, la mancanza un quadro normativo è un problema nazionale che si trascina da anni.