Ogni anno, quasi 50mila donne si rivolgono a un un centro antiviolenza. Si tratta di una cifra irrisoria rispetto ai numeri reali della violenza di genere e sessuale. Spesso si arriva al centro dopo un lungo dibattimento interiore, o perché si è arrivate allo stremo delle forze. Il lavoro svolto da questi luoghi, in cui spesso operano volontarie che non vengono pagate, è “la risposta più coordinata e organizzata al fenomeno della violenza di genere”, come scritto nella relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio.
La stragrande maggioranza dei cav in Italia è gestita da enti privati senza fini di lucro, mentre solo il 15% dei centri e delle case rifugio è a gestione pubblica. Il lavoro che svolgono gratuitamente i cav per risolvere un problema che è anzitutto un problema della collettività non viene però ripagato adeguatamente dalle istituzioni, che pur continuando a ricorrere ai cav, non ne garantiscono la sopravvivenza.
Il caso di Lucha y Siesta, il cav più grande di Roma messo sotto processo
Emblematico è il caso della casa delle donne Lucha y Siesta a Roma, che con i suoi quattordici posti letto è lo spazio che accoglie più vittime di violenza nella Capitale. Il 10 gennaio, la presidente dell’associazione è stata chiamata a comparire in tribunale per l’occupazione dell’immobile di Via Lucio Sestio, di proprietà dell’Atac. L’udienza è stata rimandata ad aprile e intanto Lucha y Siesta ha ricevuto la solidarietà di molte associazioni e della senatrice Ilaria Cucchi.
La vicenda della casa delle donne è lunga e complessa e sembrava essersi conclusa ad agosto del 2021, quando la regione Lazio aveva vinto all’asta l’immobile e l’aveva concesso in comodato d’uso gratuito con una delibera, riconoscendo il lavoro che da più di dieci anni la casa svolge sul territorio. Dall’anno della sua apertura nel 2008, infatti, Lucha y Siesta è diventata un punto di riferimento sia per le vittime di abusi che per le numerose iniziative culturali organizzate per la città.
Il processo in corso si riferisce a fatti precedenti: a gennaio del 2021, le forze dell’ordine erano entrate nello spazio identificando operatrici e ospiti (nonostante fossero inviate lì da altre strutture, pubbliche e convenzionate, che non potevano ospitarle in quel momento). L’accusa è stata formalizzata soltanto nei confronti della presidente e, nonostante l’intervento della regione Lazio, il processo non è stato archiviato come chiesto da Lucha y Siesta e da molte altre associazioni di settore. Il fatto che uno spazio femminista e un rifugio antiviolenza che ospita il maggior numero di donne in una città che ha solo 25 posti letto (a fronte dei 300 previsti dalla Convenzione di Istanbul), che ha l’appoggio della regione e che collabora attivamente con i servizi sociali della città venga messo sotto processo è davvero paradossale e sintomatico di un rapporto di asimmetria tra chi amministra il potere e i centri antiviolenza.
Il modello dei centro antiviolenza richiede di dare potere alle donne
Le istituzioni infatti dipendono dall’esperienza e dalla professionalità dei centri antiviolenza. Queste strutture nascono proprio dal movimento delle donne negli anni Settanta e sono state gradualmente riconosciute dallo Stato e integrate nelle politiche di contrasto alla violenza di genere. Sono stati i centri antiviolenza stessi a mettere a punto una metodologia basata sull’empowerment e la relazione tra donne, metodologia che è stata riconosciuta ufficialmente anche con un decreto-legge nel 2013.
Non tutti i cav seguono questa impostazione (esistono anche cav di stampo assistenzialista, ad esempio quelli gestiti da enti religiosi), ma la valorizzazione della metodologia dei cav dimostra quanto il loro ruolo sia importante per la collettività. Il problema è che spesso questo ruolo viene dato per scontato e, da spazi di autonomia e rinascita, i cav vengono trattati dalle amministrazioni come meri erogatori di servizi sociali, il cui apporto non viene adeguatamente riconosciuto o viene erroneamente paragonato ad altre realtà del terzo settore. Questo si riflette innanzitutto nelle condizioni economiche.
I centri antiviolenza, quando non sono esplicitamente attaccati come Lucha y Siesta, si trovano a fare i conti soprattutto con la mancanza di fondi. Il problema non sta nel mancato investimento: dal 2015 al 2022, l’Italia ha speso complessivamente 157 milioni di euro contro la violenza e con la legge di bilancio del 2022 si è arrivati a uno stanziamento regolare di 5 milioni di euro l’anno, che ha finalmente messo fine alle attese e alla incostanza dei decreti. Il problema risiede piuttosto nelle modalità con cui questi soldi escono dalle casse dello Stato e arrivano in quelle dei centri antiviolenza. Con l’intesa Stato-regioni del 2014, si è stabilito che sono proprio le regioni a gestire l’erogazione dei fondi: alcune le assegnano direttamente ai centri con specifici atti di concessione, altri creano dei bandi e altre ancora li trasferiscono alle amministrazioni pubbliche (come i comuni) che a loro volta li liquidano i cav.
I problemi dei cav: ritardi e mancanza di fondi
Questo sistema, oltre a essere poco trasparente e a creare disparità territoriali, è la causa dei lunghi ritardi che interessano i cav: a fine 2021, ad esempio, solo il 2% dei fondi stanziati l’anno precedente era arrivato a destinazione. I ritardi nei fondi causano enormi problemi alla sopravvivenza dei centri antiviolenza, come il cav di Perugia Catia Doriana Bellini, gestito dall’associazione Libera…mente donna, in cui da un anno le operatrici lavorano senza stipendio. Dalla sua apertura il centro ha ospitato più di duemila donne, ma al momento la capacità di accoglienza è stata ridotta da dieci famiglie a due soltanto e il servizio di pronta emergenza è stato sospeso. Per far fronte alle spese, che vanno dalle bollette, alle spese legali, ai generi alimentari, il centro ha dovuto avviare una raccolta fondi. Il Catia Doriana Bellini non è l’unico cav a trovarsi in questa situazione.
I centri antiviolenza, che magari hanno alle spalle decenni di esperienza e radicamento sul territorio, inoltre spesso devono competere per i fondi con enti che non si occupano nello specifico di violenza sulle donne, come rilevato anche dalla commissione d’inchiesta sul femminicidio. In alcune regioni basta infatti un’autocertificazione per poter accedere ai bandi, senza alcuna verifica a posteriori, e il criterio preferito è lo stesso della gara d’appalto per lavori pubblici: la convenienza.
Tutte queste criticità sono note e documentate da tempo, sia dalla commissione d’inchiesta che dal rapporto Grevio delle esperte della Commissione europea. In occasione della giornata mondiale per l’eliminazione della violenza sulle donne a novembre 2022, il Senato ha nuovamente approvato all’unanimità l’istituzione di una commissione d’inchiesta parlamentare, stavolta bicamerale. Ma non c’è molto da indagare: l’Italia ha leggi e regolamenti, sicuramente migliorabili, ma quello che manca è una reale valorizzazione dei centri antiviolenza che spesso vengono percepiti dalle amministrazioni ora come erogatori di servizi, ora come elementi di disturbo.
Spazi come Lucha y Siesta e i centri antiviolenza, che stanno fuori dalle logiche mercantili che spesso riguardano la gestione pubblica, non sono solo indispensabili argini al fenomeno della violenza di genere, ma sono anche una sorta di monito che ci ricorda quanto ancora questo problema sia radicato nella nostra società e si possa risolvere non con azioni calate dall’alto, ma con la solidarietà, il mutualismo e una autentica relazione di cura. Per questo vanno salvaguardati da ogni possibile attacco frontale e dalla politica dell’indifferenza.