Del Governo Letta in questi ultimi giorni "ne abbiamo dette di ogni" (tanto per citare una delle statiste della scorsa consiliatura lombarda). Dalla constatazione (banale ma paradossalmente non condivisa) della necessità di scelte chiare in un momento cruciale per la stabilità del Paese, alla sottolineatura delle tante contraddizioni delle larghe intese; dalla ovvia considerazione sulle complicazioni di natura politico – giudiziaria, alla verifica di quanto siano risicati i margini di manovra specie in campo economico. In realtà, per quanto possa meravigliare, la sensazione è che si possa operare quasi una separazione fra il giudizio di merito sull'operato di Enrico Letta e sul complesso dei risultati prodotti dal governo delle larghe intese.
Che, sia detto per inciso, più che il Governo del fare sembra quello del rinviare. Con una incapacità quasi "sistemica" di impostare provvedimenti di ampio respiro e di tracciare il solco fra la propaganda ed il realismo. Sullo sfondo, la figura del Presidente del Consiglio, che sta riuscendo nell'impresa di non restare impantanato nel fango delle polemiche: in stillicidio di dichiarazioni, smentite, promesse e prese di posizione che ha trascinato in basso i suoi predecessori a Palazzo Chigi. Certo, magari non starà "dando il sangue", ma a ben guardare è uno dei pochi punti di riferimento a conservare una certa autorevolezza, in Italia e all'estero.
Però…ecco, però. Perché l'inquilino di Palazzo Chigi non può essere "altro" rispetto all'esecutivo che presiede. E rispetto alla coalizione che lo sostiene. Finora, ad ogni scricchiolio della coalizione, seguito dallo stallo dell'esecutivo, Letta ha messo in campo sforzi diplomatici ed alchimie strategico – contabili senza precedenti. Ma il punto è capire fino a che punto è possibile spingersi con la pratica del compromesso. Fino a che punto cioè Letta può mediare tra istanze diverse, scansare il fuoco di sbarramento di quelli che teoricamente dovrebbero essere suoi alleati, gestire tensioni e preoccupazioni e via discorrendo. Senza alzare la voce, per giunta. O meglio, in pieno stile "orsacchiotto", spiegare di "non aver scritto in testa Giocondo", difendere il suo ministro dell'Economia e accogliere le richieste dei falchi: tutto contemporaneamente. Un esercizio di stile necessariamente a tempo e Letta lo sa bene.
Perché, sia detto per inciso, nel frattempo ci sarebbe da portare il Paese fuori dal Pantano. E soprattutto bisognerebbe onorare quella promessa fatta in Parlamento: parlare il "linguaggio della verità", spiegare agli italiani come stanno davvero le cose, mettere da parte propaganda e demagogia, rinunciare definitivamente alle promesse. Sarebbe una svolta epocale. Senza però.