Come ampiamente prevedibile, l’ottimismo con il quale i pontieri di leghisti e grillini avevano giudicato l’operazione nomine parlamentari è andato lentamente scemando con il passare dei giorni. E, a giudicare dal botta e risposta pubblico fra Di Maio e Salvini, sembrerebbe di essere tornati al punto di partenza, ovvero alla situazione di stallo alla messicana, tra Salvini, Di Maio e Berlusconi, con Renzi sempre immobile.
La dimensione pubblica della vicenda, però, può ingannare, dal momento che a Montecitorio e Palazzo Madama l'asse ha retto benissimo quando si è trattato di spartirsi le poltrone. Le trattative, le discussioni, i chiarimenti stanno procedendo su una sorta di doppio binario: uno pubblico, fatto di avvicinamenti e allontanamenti repentini, di video "personali" e di incontri fra i capigruppo, di botta e risposta su Twitter e di telefonate portate a conoscenza dell'opinione pubblica; uno lontano dai riflettori, in cui decisori e semplici peones si danno da fare per trovare una soluzione a quella che ancora nessuno ha il coraggio di chiamare per ciò che è, una crisi politica.
Mercoledì cominceranno le consultazioni, con le posizioni che i singoli leader porteranno al Presidente della Repubblica che sono note da tempo. Ci sarà però un momento in cui i due binari, quello pubblico e quello riservato, dovranno necessariamente incontrarsi, dando vita a una serie di "possibilità concrete" per rompere lo stallo.
Il piano A
Il primo scenario cui stanno lavorando i capigruppo, i leader e i peones, su binari diversi appunto, è quello del governo di scopo, o di programma, come vorrebbero chiamarlo i Cinque stelle. Un esecutivo che metta in campo una serie di provvedimenti urgenti, che imposti la prossima legge di stabilità (disinnescando le clausole di salvaguardia e impedendo l'aumento dell'IVA) e che sostenga il Parlamento nella stesura di una nuova legge elettorale, con un premio di maggioranza che consenta a Salvini e Di Maio di giocarsela testa a testa a maggio 2019. Ufficialmente l'ostacolo principale è rappresentato dalla poltrona di Palazzo Chigi, che Di Maio e Salvini rivendicano entrambi. Ufficiosamente, invece, si sussurra che entrambi possano fare un passo indietro in cambio di garanzie e della certezza che l'esecutivo sia di breve durata. La mossa dei Cinque Stelle di guidare il percorso di verifica delle convergenze programmatiche va proprio in questa direzione: poter rivendicare presso i propri elettori di aver messo sul piatto della bilancia la capacità di orientare le scelte del governo futuro, e rivendersela come più importante delle "poltrone", anche di quella di Presidente del Consiglio. Letta in questo modo, dunque, la mediazione avviata da Toninelli e Grillo è un passo in direzione della soluzione A, con la palla che ora passa a Salvini.
Il problema è che il leader leghista deve convincere i suoi alleati ad abbandonare il piano B, quello che non prevede di andare al governo assieme ai 5 Stelle. È la soluzione caldeggiata dai forzisti, che troverebbe una sponda naturale nei palazzi romani.
Il piano B
A spiegarci di che si tratta è una fonte interna al PD, insofferente alla linea dell'immobilismo dettata dalla dirigenza renziana. Cosa succede se l'asse Salvini – Di Maio si rompe e se entrambi si convincono che a nessuno dei due conviene, politicamente ed elettoralmente, far nascere un governo di compromesso? Mattarella non ha molte opzioni, dato che "adesso" la linea renziana regge, tranne qualche spiffero affidato a retroscena e interviste criptiche. Dopo giorni, settimane di colloqui a vuoto, magari dopo il pre-incarico a Di Maio, a rompere lo stallo sarà "la naturale evoluzione degli eventi". "L'errore è bocciare una soluzione leggendola con gli occhi del presente", ci spiega la nostra fonte, aggiungendo: "L'instabilità non piace a nessuno, da Bruxelles cominceranno ad arrivare segnali chiari, basterà poco per incrinare la fermezza di parlamentari e alti dirigenti del PD, lo spread che sale, nessuno che fa il DEF, lo spettro dell'aumento dell'IVA, qualche sondaggio che ti affossa…".
Uno scenario di questo tipo prevede dunque il "naturale cedimento" del PD alle pressioni di Mattarella e della Ue, che porti alla scelta di "far nascere" un governo del centrodestra: "Ci sono tante strade, si sa come funziona in questi casi. Bastano un paio di interviste, qualche apertura, una direzione convocata in fretta in cui si approva un documento come quello che permise la nascita del patto del Nazareno, in cui si usavano mille giri di parole per non dire esplicitamente che si stava riportando Berlusconi al governo del paese". Le "tante strade" in realtà sono essenzialmente tre: o un appoggio esterno indiretto, o un accordo organico (con qualche poltrona "di garanzia"), oppure la nascita di un gruppo di "responsabili", che assieme ai fuoriusciti grillini compia la stessa operazione fatta da Alfano dopo la rottura del patto del Nazareno. Il piano B, inoltre, sarebbe anche un modo per liberarsi definitivamente di Renzi, che vede questa soluzione come il taglia-fuori definitivo, oltre che come un atto di miopia politica.
Certo, anche in questo caso occorrerebbe che Salvini faccia un passo indietro: non è pensabile, pena l'annientamento definitivo, che il PD faccia nascere un governo guidato dal leader leghista, che dovrebbe convergere su "Giorgetti o una figura equivalente". Un esecutivo di questo tipo non sarebbe necessariamente a tempo, ma potrebbe anche durare a lungo, sfruttando la naturale propensione dei parlamentari a restare "incollati alla legislatura".
Il piano C
Ipotesi e ragionamenti che circolano anche al Colle, dove si continua a cercare disperatamente un piano C, una via di uscita alla crisi nel caso in cui le posizioni odierne dovessero invece cristallizzarsi. Cosa fare, dunque, nel caso in cui Salvini, Di Maio, Berlusconi e Renzi dovessero arroccarsi sulle loro posizioni senza perdere il controllo della loro pattuglia parlamentare. Mattarella, lo indicano anche i tempi biblici scelti per la fase post elettorale, non ha intenzione di riportare il paese alle urne in estate e non vorrebbe farlo nemmeno in autunno, soprattutto con questo sistema elettorale. Non è escluso, dunque, che Mattarella prenda in mano la situazione e decida di mettere il Parlamento di fronte alla "responsabilità", chiedendo supporto per un governo di unità nazionale, magari affiancato da un comitato di saggi o una commissione che si incarichi di stilare i provvedimenti più urgenti e le basi per una nuova legge elettorale. Si potrebbe dire di no a una proposta di questo tipo? Dipende.
Il no a un esecutivo tecnico appare scontato, come ribadito più volte praticamente da tutti. L'operazione Romani alla Presidenza del Senato è stata fatta saltare da Salvini, che ha capito che il senatore forzista sarebbe stato la testa di ponte per una operazione di questo tipo. Casellati, realisticamente, non è opzione percorribile. Alla Presidenza della Camera c'è Fico, che, oltre a essere di un gruppo che si è sempre detto indisponibile a governissimi, non è esattamente la persona migliore per questo tipo di "giochetto di palazzo", per indole e integralismo politico. Servirà, insomma, un colpo di teatro, un coniglio dal cilindro. Mattarella, insomma, è davvero nei guai.