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Governo Gentiloni, Giannini l’unica non riconfermata paga il fallimento della Buona scuola

La ragione dell’allontamento di Stefania Giannini si trova tutta nel fallimento della Buona Scuola, quella riforma dell’Istruzione che sarebbe dovuta essere un motivo di vanto per il governo Renzi e invece si è rivelata un clamoroso boomerang. Non è stato lo stesso con il Jobs Act, sempre rivendicato come un grande successo, disconoscendo e sminuendo dati e report di segno contrario.
A cura di Claudia Torrisi
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La squadra di governo presentata dal neo presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ricalca sostanzialmente quella precedente – tanto che in molti hanno iniziato già a parlare di Renzi-bis. I nomi nei ministeri chiave – se si eccettua il passaggio di Angelino Alfano dagli Interni agli Esteri – sono rimasti gli stessi, in un'ottica di continuità con quanto fatto finora: Padoan ha troppi dossier aperti per le mani e resta come era previsto all'Economia; Pinotti prosegue il suo lavoro alla Difesa, così come Orlando alla Giustizia, Galletti all'Ambiente, Franceschini, Calenda, Poletti e persino la criticatissima Beatrice Lorenzin alla Salute. L'unica testa a saltare è stata quella di Stefania Giannini, ministro dell'Istruzione.

Che non sarebbe stata in squadra lo si è saputo sin dalle prime ore: il toto ministri impazzava sulla poltrona del Miur, offerta – e poi rifiutata – a Cuperlo, e accostata ad altri nomi, come Francesca Puglisi o Marco Rossi Doria. La scelta, alla fine, è caduta sulla senatrice del Partito democratico Valeria Fedeli.

La ragione dell'allontamento di Stefania Giannini si trova tutta nel fallimento della Buona Scuola, quella riforma dell'Istruzione che sarebbe dovuta essere un motivo di vanto per il governo Renzi e invece si è rivelata un clamoroso boomerang. Presentata come la prima stabilizzazione dopo anni di tagli di migliaia di insegnanti, la gestione della riforma della scuola è stata una delle patate bollenti più insidiose con cui l'esecutivo di Renzi si è dovuto confrontare: tra scioperi e proteste di studenti, precari e sindacati, inviperiti contro i trasferimenti a centinaia di chilometri da casa, il decisionismo dei presidi e altri provvedimenti. Un dissenso che, probabilmente, ha pesato anche il 4 dicembre, quando si sono aperte le urne per il referendum costituzionale. Dunque Giannini è stata mandata via in conseguenza del disastro della Buona Scuola, che ha portato solo danni all'immagine del governo Renzi.

Ma se il ragionamento è questo, allora non si spiega la permanenza di Giuliano Poletti al lavoro: anche il Jobs Act è stato più e più volte avversato. Tra l'altro continuano a essere pubblicati report sconfortanti sulla situazione dell'occupazione del nostro paese, come il calo del 18,7% delle nuove assunzioni stabili a tempo indeterminato (406.691) rispetto al terzo trimestre del 2015. Eppure Poletti è rimasto al suo posto. Perché? Innanzitutto, il governo e Renzi hanno sempre continuato a rivendicare il Jobs Act come un grande successo, disconoscendo e sminuendo dati e report di segno contrario. Un successo sul quale, tra l'altro, Renzi ha messo la sua faccia – più che quella di Poletti – e non vuole sentire ragioni. Sulla Buona Scuola, invece, il governo ha dato input e soldi, ma avanti c'era Giannini – che l'ha gestita in maniera pessima, anche dal punto di vista della comunicazione. Su questa gestione Renzi ha proceduto dritto come un treno, aprendo al confronto con i lavoratori della scuola piuttosto in ritardo. E con questa gestione si è perso il consenso degli insegnanti, un blocco definito e importante, che il Partito democratico vorrebbe almeno provare a recuperare.

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