Una delle (pochissime) novità del Governo Gentiloni è costituita dal ministero del Mezzogiorno, affidato a Claudio de Vincenti, già sottosegretario alla Presidenza del Consiglio del Governo Renzi. La scelta, che per la verità non ci convince molto da un punto di vista politico (il pensiero corre a quei carrozzoni fatiscenti ed inutili che hanno alimentato clientele e notabilati, generando intricati rapporti fra gruppi di potere, politica e associazioni criminali, “tipici” della prima Repubblica), rimanda all’idea di una strategia di sviluppo centrata sul Mezzogiorno, che parta da un dato di fondo: la questione meridionale è da tempo questione nazionale, con aspetti generazionali e sociali di indubbia rilevanza. Il Governo Renzi aveva puntato molto sui patti per il Sud, cercando di mettere ordine nella galassia dei fondi europei e impostando una sorta di monitoraggio delle opere e dei progetti messi in cantiere nel Mezzogiorno. La ricetta operativa (quella teorica era molto più interessante, per la verità) individuava “la responsabilità ultima del sottosviluppo del Sud nell’incapacità dei suoi amministratori di gestire risorse pubbliche, in particolare i Fondi Strutturali Europei”. Problema che esiste, ovviamente, ma che è in ogni caso "interno" a politiche di sviluppo che hanno concorso a determinare tale situazione negli ultimi anni. Servirebbe probabilmente un'inversione di marcia, un ripensamento delle politiche di sviluppo, un superamento della formula retorica per cui "lo sviluppo del Sud è volano di crescita per il Paese", forse un calcio alle politiche di austerità (che hanno un'incidenza maggiore nelle aree depresse). Un ministero per il Sud, senza un ragionamento complessivo, è una cattedrale nel deserto di cui faremmo volentieri a meno.
C’è un grafico diffuso dall'Istat che restituisce una fotografia forte e chiara di quello che viene chiamato “lo sviluppo squilibrato del Paese”. Tecnicamente il rapporto Bes 2016 dell’Istat lo definisce “indice composito per ripartizione geografica negli anni 2015 / 2016”, nella sostanza è il Paese che abbiamo costruito, al netto della crisi più dura incontrata e delle risposte più deboli fornite dalla politica in questi decenni.
Il grafico prende in considerazione una serie di indicatori e restituisce questa situazione:
Come spiega l’Istat, “l’occupazione è in assoluto la dimensione dove la distanza tra Nord e Sud del Paese è più ampia, seguita dal reddito, dalle condizioni economiche e dalla qualità del lavoro”. Questi aspetti meritano un particolare approfondimento, anche solo per la centralità che hanno nella vita quotidiana, nella percezione della propria condizione e per quanto ci aiutano a comprendere le dinamiche sociali, stante l’obsolescenza delle vecchie griglie di lettura della società.
Cominciamo dal lavoro, che il rapporto BES (giustamente) considera come sintesi di due aspetti: il livello occupazionale e la qualità stessa del lavoro. Il dato di fondo, dal 2008 in poi, è la generale diminuzione del livello occupazionale e il tracollo della qualità del lavoro, che si è deteriorata in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale. Il divario però tra Nord e Sud del Paese resta imbarazzante e persino il miglioramento occupazionale del biennio 2015 / 2016 è più marcato al Nord.
Collassa, invece la qualità del lavoro:
Per quel che concerne il reddito, il rapporto Istat prende in considerazione due indicatori: il livello di reddito e la sua distribuzione; la diffusione di condizioni di forte disagio economico e abitativo (le “condizioni economiche minime”). È necessario certo sottolineare come la questione reddituale dipenda in maniera decisiva dal quadro economico generale, ma allo stesso tempo non si può tacere l’assenza di politiche redistributive efficaci negli anni più duri della crisi. C’è un leggero e sensibile miglioramento nell’ultimo biennio, che investe in particolar modo il Mezzogiorno, come spiega Istat:
“Il Mezzogiorno è la ripartizione che mostra il peggioramento più rilevante (l’indice sintetico è sceso di 7 punti tra il 2008 e il 2013) ma è anche la ripartizione che tra il 2014 e il 2015 ha visto un miglioramento più marcato delle condizioni reddituali, frutto di un incremento dei redditi maggiore della media nazionale e, al contempo, di una riduzione consistente dell’in- dice di diseguaglianza, particolarmente rilevante in Campania ma anche in Calabria e Sicilia […] Le condizioni economiche minime migliorano, tra il 2014 e il 2015, nel Mezzogiorno più che nel resto del Paese, in particolare rispetto al Nord dove rimangono invariate. Il miglioramento nel Mezzogiorno è legato alla forte riduzione di quanti si dichiarano in grande difficoltà economica, una tendenza presente anche al Centro dove viene però compensata da un aumento della grave deprivazione”.
Il grafico sulle condizioni economiche minime resta impietoso:
Il punto è sempre lo stesso, ormai un sordo rumore di fondo: "Le condizioni di difficoltà risultano particolarmente diffuse nella popolazione residente nel Mezzogiorno e nei segmenti dei minori, dei giovani e degli stranieri che, nel 2015, continuano a mostrare segnali di peggioramento in termini di povertà e deprivazione". Peraltro in un contesto nazionale preoccupante, considerando che nel 2016 l'Italia ha il 19,9% di persone a rischio povertà: un dato che (anche tecnicamente) dipende dalla elevata disuguaglianza nella distribuzione del reddito, che è e resta problema "assoluto" a livello nazionale e continentale.
Il benessere soggettivo
C'è un commento standard che si sente ripetere ogni volta che le varie classifiche sulla qualità della vita relegano agli ultimi posti le province e le città del Mezzogiorno d'Italia, che suona più o meno così: "Il giudizio è soggettivo". Se dunque la forza dei dati, la fredda logica dei numeri e le inespressive tabelle non bastano a farci uscire dalle nostre camere dell'eco, ci rifugiamo nella "percezione soggettiva", nella considerazione che in fondo "al Sud si vive bene", con abbondanza di citazioni retoriche e di riferimenti culturali.
Una fallacia logica dalla quale è possibile provare a uscire riferendosi a un indicatore considerato a livello internazionale come il più solido e affidabile: l’indice della soddisfazione per la vita. Istat nota come nell’ultimo biennio le distanze tra le diverse aree del Paese si stiano assottigliando notevolmente, ma come resti sempre ampio il gap fra il Nord e il Mezzogiorno (dove “spicca” la Campania, ultima con un distacco enorme anche rispetto alle altre Regioni).
C'è un aspetto molto particolare delle rilevazioni Istat, che in qualche modo smaschera quella sorta di pregiudizio cognitivo che spesso influenza le discussioni sulla qualità della vita e sul valore delle classifiche. Si legge sempre nel rapporto Bes:
Nel Mezzogiorno, tutte le forme di reti sociali risultano più deboli rispetto al resto del Paese […] La quota di popolazione molto soddisfatta per le relazioni amicali si attesta nel Mezzo- giorno al 19,4%, mentre nel Nord raggiunge il 26,6%. Il divario territoriale è più ampio se si considerano le relazioni familiari: in questo caso, la quota di molto soddisfatti è pari al 27,1% nel Mezzogiorno mentre supera il 38% nel Nord. Nel Mezzogiorno, alla minore soddisfazione per le relazioni familiari e amicali si associa anche una percentuale più bassa di chi dichiara di avere persone su cui poter contare: il 79,6% contro quasi l’83% del Centro-Nord. […] Il divario tra Centro-Nord e Mezzogiorno si ritrova anche nell’indicatore sulla fiducia che le persone sono disposte ad accordare ai loro concittadini. Nel Mezzogiorno, solo il 16,5% della popolazione di 14 anni e più ritiene che gran parte della gente sia degna di fiducia, mentre nel Centro-Nord il livello sale al 21,4%.
Il gap resta anche per quanto riguarda la partecipazione alla vita sociale e politica, anche se i dati nazionali evidenziano un calo generalizzato quanto a interesse e fiducia nella gestione della cosa pubblica.
Dati, cifre, fatti, che sono un pugno nello stomaco. E che dovrebbero spingerci a riflessioni di senso e progetti di ampio respiro. Oltre che a mettere da parte campanilismi e frasi fatte, magari.