Lo dico prima di iniziare. Io detesto amabilmente gli hashtag. Penso che, nella maggioranza dei casi, siano un divertente gioco letterario alla Stefano Bartezzaghi, un piccolo equilibrismo in grado di strapparci un sorriso di ammirazione (o di compatimento) nei confronti del suo ideatore e nulla più. Penso che in certe situazioni siano indispensabili, specie quando sta accadendo qualcosa di importante ed è necessario radunare in un unico feed tutte le notizie possibili al riguardo (per esempio subito dopo un terremoto) ma che il loro utilizzo sia mediamente inutile e barocco. Penso che, nove volte su dieci, siano un giochetto da ragazzini o un terreno di coltura per forme di marketing aziendale vaporoso ed innovativo (o presunto tale).
Così quando ieri Matteo Renzi ha illustrato la sua più recente manovra politica in dieci tweet, ognuno dei quali corredato di ben due hashtag, ho pensato, dal’alto della mia allergia, che non si trattava di una buona idea. Che questa indigestione di cancelletti forse non raccontava, come sostengono in molti, la superficialità di una nuova forma di comunicazione politica ma, più probabilmente, una certa idolatria tecnologica fine a se stessa.
Oltre all’hashtag #oraics contenuto in tutti i tweet di Palazzo Chigi possiamo trovare:
#byebyeautoblu
#opendata
#normaolivetti
#F35
#immobili
#municipalizzate
#diesirap
#ognipromessaèdebito
#bankitalia
A parte il calembour divertente #diesirap (che Matteo Renzi in conferenza stampa ha attribuito esplicitamente a @nomfup, anche se noi al riguardo non avevamo dubbi) e un paio di altri giochetti linguistici ben fatti come #byebyeautoblu e #ognipromessaèdebito è evidente credo a chiunque che si tratta di tag del tutto irrilevanti, senza alcuna possibilità di aggregare senso e conversazioni.
E allora forse è utile chiedersi se simili forme di comunicazione istituzionale abbiano un senso e, nel caso, quale esso sia. Perché lo Stato non è una azienda che può pianificare campagne pubblicitarie basate sull’uso leggero degli hashtag (per esempio come ha fatto Enel qualche mese fa con la sua campagna pubblicitaria #guerrieri che tutti oggi in rete ricordano con maggior esattezza per la sua efficace variante #coglioni) per poi eventualmente subirne le conseguenze (come è capitato a McDonalds con una analoga campagna basata sugli hashtag di un paio di anni di cui paga tutt’ora lo scotto). Dallo Stato io mi aspetterei forme di comunicazione che producano senso per i cittadini.
Volendo estremizzare il valore assertivo intrinseco degli hashtag si potrebbe dire che l’#oraics è poi iniziata in discreto ritardo, che la politica in forma di tweet assomiglia ad una variate hardcore della politica per slogan tipica dei talk show televisivi (recitati in genere senza alcun freno che non sia il litigio urlato fra contendenti), che se il comunicato stampa del Governo, per inevitabili ragioni di contesto, tende a spiegare ai cittadini il senso dei provvedimenti un tweet massimizza l’effetto annuncio e riduce al minimo le responsabilità comunicative di chi lo emette. E ancora una volta, il soggetto emettitore non è ininfluente: una cosa è @nomfup, un'altra @Palazzo_Chigi.
L’unico effetto rilevante della boutade degli hashtag di ieri e dei tweet a ripetizione sparati da Matteo Renzi è quella di finire rapidamente sui giornali in quanto messaggi in bottiglia letti da giornalisti dentro un social network scritto e letto in Italia in buona parte solo da altri giornalisti. Una formidabile camera di eco fra pari che certamente riempirà per un giorno le pagine dei quotidiani e dei siti web ma che lascerà dietro di sé, per forza di cose, un inevitabile nulla cosmico comunicativo. Anzi, un #nulla #cosmico #comunicativo.