Mentre si stanno scannando a suon di dichiarazioni, di opinioni dei sempre pronti esperti, di articolesse appassionate e ‘ispirate' da editori che già si fregano le mani (‘ora gli facciamo vedere noi a quelli!'); mentre noi cerchiamo di districarci tra Google tax, Web tax e qualche editore (sempre gli stessi) già sogna motori di ricerca che si tramutano in slot machines, pronti a sputare soldini ad ogni ricerca, ci scordiamo di un piccolo, trascurabile, particolare del sistema. I giornalisti italiani. Soprattutto i giornalisti precari, gli atipici e i freelance.
Quello stesso mondo che "si costerna, s'indigna, s'impegna poi getta la spugna con gran dignità" per dirla alla De Andrè s'è scordato – o finge molto bene di dimenticare – che da un anno vige, inapplicata, una legge sui lavoratori del comparto editoria. È la numero 233, approvata il 31 dicembre 2012, quella sull'equo compenso nel lavoro giornalistico. La norma è entrata in vigore il 18 gennaio di quest'anno ma per essere operativa attende il regolamento attuativo. Cioè, semplicemente, attende che venga economicamente quantificato l'equo compenso per i giornalisti. Il punto minimo da cui partire e sotto il quale non andare. Per difendere la dignità di un lavoro complesso e importante: informare l'opinione pubblica. In un anno si sono susseguiti incontri su incontri a Palazzo Chigi, nel dipartimento Editoria guidato oggi dal sottosegretario Giovanni Legnini (Pd). Gli editori della Fieg (i grandi gruppi italiani) e quelli di Aeranti Corallo (per lo più tv private) hanno fatto ‘melina' e non è stato trovato un accordo con Fnsi (sindacato dei cronisti) e Ordine dei giornalisti. La voce che circola è questa: impedire a tutti i costi l'equo compenso anche a costo di bloccare la trattativa sul nuovo contratto giornalistico Fnsi-Fieg. Quel contratto che ormai è riservato ad una parte sempre più striminzita di cronisti italiani, legati alle aziende dalle più disparate forme: dai co.co.co alle partite iva, dalla cessione dei diritti d'autore agli accordi a progetto.
Insomma, mentre gli editori chiedono a Google di sganciare quattrini invocando una legge ‘regolatrice' si guardano bene dal fare altrettanto davanti ad una norma pronta da un anno che li obbligherebbe ad aprire i cordoni della borsa e compensare dignitosamente le collaborazioni. C'è da un anno una legge dello Stato che non trova applicazione – ed è una vergogna – nel silenzio generale. Ma quando si tratta non di incassare, bensì di pagare, i grandi editori italiani la legge se la scordano.