Una partita a scacchi. Ecco cosa sembra la trattativa sulla riforma del lavoro che in queste ore si sta svolgendo tra le parti sociali ed i rappresentanti del Governo, capitanati dal ministro Elsa Fornero e dal suo vice Michel Martone. Sulla scacchiera non solo i malcapitati pedoni – operai, ma simbolicamente l'intera società italiana che, in un modo o nell'altro, è chiamata a fare i conti con provvedimenti che in un certo modo potrebbero scardinare le fondamenta dell'intero stato sociale. Il punto cruciale è quanto e cosa siamo disposti a sacrificare per salvaguardare un sistema che si avvia al collasso (e che in parte ha già beneficiato di consistenti deroghe). Ed è abbastanza evidente che il peso di una riforma strutturale non può ricadere esclusivamente sulle spalle dei lavoratori, non tanto per valutazioni di carattere politico – ideologico, ma per una questione banalmente e schiettamente pragmatica. In poche parole, i redditi medio bassi e la "media" delle famiglie italiane sono allo stremo e tutti gli indicatori statistici testimoniano come, al di là delle valutazioni di carattere politico e delle speculazioni teoriche, siano loro a pagare gli efetti della crisi in termini estremamente concreti.
Quale accordo, quale idea di futuro – La posta in gioco è alta. Ma i margini di manovra restano strettissimi e l'ostinazione del ministro del welfare nel proseguire con o senza l'appoggio delle parti sociali certo non aiuta a rasserenare gli animi. Come un Marchionne qualsiasi, Fornero sembra determinata a portare a compimento un progetto già largamente anticipato a grandi linee, ma mai svelato nei dettagli (che in questo cosa rappresentano la vera sostanza del progetto): revisione dei meccanismi di ingresso e uscita (nel segno della flessibilità, ci mancherebbe altro), ripensamento del sistema degli ammortizzatori sociali e "mutamento di prospettiva" per quanto concerne l'approccio al welfare (con la "scusa" del definitivo abbandono del modello assistenzialista). Dall'altra parte non si dovrebbe faticare ad ammettere che quella intorno all'articolo 18, prima ancora di considerare la sostenibilità del modello tedesco ad esempio, è una battaglia di sostanza e principio allo stesso tempo, un vero e proprio simbolo di uno scontro in atto da tempo fra due visioni radicalmente contrapposte. E, sia detto per inciso e senza alcuna pretesa di esaustività, l'idea di appellarsi al modello tedesco senza considerare la diversa consistenza dei salari è solo uno delle tante distorsioni di un dibattito infarcito di propaganda e faziosità. Insomma, una riforma del mercato del lavoro non può non riflettere un'idea di Paese, un chiaro modello di sviluppo armonico ed equilibrato e davvero non si capisce come ciò possa essere "raggiunto" tramite decisioni unilaterali o ricatti di basso profilo (vedasi l'ormai proverbiale "paccata"). E Fornero è ancora in tempo per fermarsi e riflettere, riconoscendo che riformismo e bonapartismo sono difficilmente conciliabili e che è solo attraverso condivisione ed unità di intenti che il Paese può lasciarsi alle spalle uno dei momenti più bui della sua storia recente.