Finanziamento ai partiti, casse vuote con l’abolizione dei rimborsi elettorali
I partiti sono rimasti senza soldi. Da un lato il taglio al finanziamento pubblico, dall'altro il crollo del numero di tesserati e la riduzione delle donazioni private: i fondi dei partiti sono diminuiti del 60% tra il 2013 e il 2017. Secondo il rapporto Openpolis-Agi "Partiti in crisi, analisi dei bilanci delle forze politiche tra 2013 e 2017" la principale causa è stata la progressiva abolizione dei rimborsi elettorali. La prima riforma del finanziamento ai partiti è stata approvata nel 2012 dal governo del professor Mario Monti. I contributi pubblici per quell'anno sono passati da 182 a 91 milioni di euro, con ulteriori riduzioni previste per gli anni successivi. Il governo di Enrico Letta è intervenuto in seguito eliminando direttamente il meccanismo dei rimborsi elettorali (automatici e proporzionali al numero di voti ottenuti alle elezioni) e sostituendolo con il 2×1000, in base al quale è il singolo contribuente a decidere nella propria dichiarazione dei redditi se destinare quella quota della sua Irpef a un partito. Con il nuovo sistema di distribuzione dei fondi i partiti nel 2017 sono riusciti a ottenere solo circa 15 milioni sui 45 disponibili, lasciando il restante allo Stato.
Se si guarda ai bilanci dei singoli partiti, il Partito Democratico nel 2013 poteva su 37,6 milioni di euro di entrate, di cui 24,7 milioni provenienti dai rimborsi elettorali. Nel 2017 i fondi a disposizione ammontano invece a 17,7 milioni (-53%). Il 2×1000 ha portato nelle casse del Pd circa 8 milioni, un terzo di quanto ottenuto con i rimborsi elettorali quattro anni prima. Altro caso emblematico è quello della Lega Nord. Dai 12,5 milioni di euro in cassa nel 2013 (di cui 6,5 milioni dai rimborsi elettorali di quell'anno), si è giunti nel 2017 a 2,9 milioni (di cui appena 1,9 milioni ottenuti con il sistema del 2×1000).
Rimane stabile il contributo pubblico che Camera e Senato erogano ai gruppi parlamentari per pagare le loro spese correnti e il personale di cui hanno bisogno (funzionari, esperti giuridici e di comunicazione). Si tratta di circa 53 milioni di euro l'anno, un valore ben più consistente dei fondi assegnati con il 2×1000. La sua erogazione avviene in parte in quota fissa, in parte in proporzione alla consistenza numerica dei gruppi in Parlamento.
L'altro aspetto rilevante nella riduzione dei fondi ai partiti è il fallimento del passaggio dal finanziamento pubblico a quello privato. Lo scopo delle riforme sul finanziamento ai partiti è infatti l'instaurazione di un sistema basato sulle donazioni private (le cosiddette erogazioni liberali). Per questo la legge prevede una serie di agevolazioni fiscali per incentivare i contributi di cittadini, aziende e altri soggetti privati ai partiti registrati. Tra 2014 e 2016 i contributi da persone fisiche sono calati però del 38% e quelli da persone giuridiche del 67%. Solo nel 2017 si è registrata una prima inversione di tendenza sulle donazioni da persone fisiche (salite a circa 15 milioni di euro), mentre sono continuati a diminuire i contributi provenienti da aziende e altri enti (oggi circa 700mila euro).
La gran parte dei finanziamenti privati da persone fisiche provengono dagli stessi eletti del partito. Gli eletti versano infatti una quota della loro indennità come contributo al partito, secondo un'abitudine consolidata e a volte sancita da statuti e regolamenti interni, come dimostra la recente vicenda dell'ex presidente del Senato Pietro Grasso. Secondo gli estensori del rapporto, "non è irragionevole ipotizzare che indennità e rimborsi vengano mantenuti all'attuale livello anche allo scopo di finanziare partiti e movimenti. Per molti dei soggetti considerati infatti la percentuale di donazioni private derivante dal contributo degli eletti è determinante". Ad esempio nel 2017 per Sinistra Ecologia e Libertà e Lega Nord i contributi degli eletti rappresentavano la quasi totalità dei fondi del finanziamento da privati; seguono Scelta civica (83,9%), Fratelli d'Italia (72%), Alternativa popolare (70,7%), Partito democratico (67,3%), Forza Italia (66%), Partito socialista italiano (42%) e Rifondazione comunista (20,38%).
Restano esigui i fondi provenienti dal tesseramento: si tratta in media di circa il 4,5% delle entrate dei partiti nel 2017. In termini assoluti l'ammontare è diminuito nel tempo. Caso a parte quello di Fratelli d'Italia, che nel 2017 ha ricevuto dal tesseramento circa 380 mila euro, pari al 29,5% delle sue entrate. In Forza Italia le quote di iscrizione degli aderenti hanno pesato per il 12% (419mila euro su circa 3,5 milioni). Bassissima la quota per Pd e Lega, rispettivamente lo 0,29% (51mila euro) e lo 0,26% (7mila euro), ma occorre considerare che, nel caso di questi due partiti, sono le strutture locali a trattenere la maggior parte dei fondi così ottenuti. In generale sono soprattutto i piccoli partiti a dipendere di più dalle quote versate dagli iscritti. Il Psi riceve quasi metà delle sue entrate dal tesseramento (282mila euro su 578mila), ma percentuali consistenti si registrano anche per Pli (29,5%), Union Valdotaine (22,4%), Verdi (10,7%), Rifondazione comunista (7,3%), Die Freiheitlichen (7,1%), Partito autonomista trentino tirolese (6,5%).
Incassando meno i partiti sono costretti a spendere meno: durante gli anni esaminati le spese sono scese del 75%, da 129 a 31 milioni. È calata del 90% la spesa per l'acquisto di beni (da 4,2 milioni a 300mila euro) e servizi (-72% da 40 milioni di euro a 11), anche se con un andamento altalenante in quest'ultimo caso, in quanto legato alla presenza di campagne elettorali nazionali. Il settore più interessato dai tagli è quello del personale dei partiti, che è passato da una spesa di 19,6 milioni di euro a 9,4. Più nello specifico la voce "stipendi" è scesa da 14,5 a meno di 7 milioni annui (-53%).