Fare debiti per studiare: quando l’Europa copia la parte peggiore degli USA
Città da scoprire, feste multilingue e amori europei. Se per anni questa è stata la prospettiva di migliaia di studenti italiani alle prese con la partecipazione ai bandi Erasmus ora lo scenario rischia di cambiare. Non più borse di studio con le quali pagare il proprio appartamento spagnolo, ma file agli sportelli e conti da far quadrare per restituire fino all'ultima rata il prestito ricevuto. Dal 2015 nelle pieghe del programma bandiera dell’Unione europea si nasconde infatti un virus: il Master Loan Scheme. Chi vuole frequentare la magistrale all’estero può chiedere un prestito in banca (fino a 18mila euro per due anni), da ripagare nel classico “comode rate a interessi vantaggiosi”. Come viene stabilito che un interesse sia favorevole non è chiaro, quello che si scopre con più semplicità è che l’unica banca che offre questi servizio in Italia, Emilbanca, applica un tasso del 5%, non molto differente da quelli pubblicizzati online da altri servizi commerciali.
La Commissione sostiene che il programma è nato per eliminare un gap: “I prestiti studenteschi esistono in molti Stati Membri, ma non c’è una copertura completa all’interno dell’Unione e spesso si richiedono assicurazioni collaterali che rendono difficile l’accesso al finanziamento. Con questo modello l’Ue fornisce queste garanzie sbloccando capitali e opportunità di vita per studenti di qualsiasi estrazione sociale”. Non c’è dubbio che la somma ricevuta dia un po’ di respiro a chi cerca di destreggiarsi tra affitti, tasse universitarie e spese di tutti i giorni, ma permettere di contrarre un debito è veramente dare un’opportunità? “Quello proposto dall’Unione europea è probabilmente la forma meno vessatrice di prestito d’onore che conosciamo – commenta Matteo Vespa, rappresentante dell’Udu, associazione di studenti italiana – ciò non toglie che non ha nulla a che vedere con il diritto allo studio. Si tratta di un’ipoteca sulla vita di una persona. Una volta che hai un debito inizi a ragionare in termini di gestione del rischio, non più di opportunità, desideri, possibilità”.
Secondo gli auspici di Bruxelles il programma ha l’obiettivo di rimuovere le barriere economiche, tant’è che, dichiarano: “oltre il 77% degli intervistati ha ammesso che senza l’aiuto di questo progetto non sarebbe riuscito a intraprendere questa fase degli studi”, ma se si analizzano i dati siamo di fronte a un flop: circa 600 studenti raggiunti in più di cinque anni e solo cinque banche coinvolte. Birkena Xhomaqi, direttrice di Longlife Learning Platform, una rete europea che si occupa di educazione formale e informale dice che “si sapeva dall’inizio che sarebbe stato un fallimento. Abbiamo lottato molto per eliminarlo, ma si trattava di due righe in pagine e pagine di progetti e quasi nessuno se ne è accorto. E’ stato fortemente voluto dai britannici, ci siamo battuti per renderlo il più accessibile possibile, ma non è stata fatta nessuna indagine di mercato. E alla fine eccolo qui, non è appetibile né per gli studenti, né per le banche”. Che ci sia un problema di “attrattiva limitata per gli intermediari finanziari” lo riconoscono anche alla Commissione, ma individuano il motivo principale nella “portata limitata del pubblico scelto”, quindi sono pronti ad aprire ancora di più: non solo master, ma anche corsi di laurea triennali, e perché no anche altre forme di coinvolgimento di università e enti di formazione. Così il progetto si rilancia cambiando veste: da Erasmus+ a InvestEU, il programma che avrebbe dovuto far da volano all’economia europea grazie alle partnership con i privati, prima conosciuto come “Piano Juncker”. Il Master Loan si libera dei legami con il mondo dell’educazione e della cultura ed entra a pieno titolo in quello degli “strumenti finanziari”, un abito che probabilmente calza meglio, ma che non elimina le insidie. Se passa il messaggio che per studiare, o usando lo slogan di promozione della Commissione, per “arrivare al successo”, bisogna calibrare il proprio percorso di vita su quelle che sono le esigenze del mercato, significa in poche parole cancellare tutti gli sforzi compiuti negli ultimi decenni a sostegno dell’istruzione pubblica. Che questo non sia semplicemente un cattivo presagio lo dimostrano le statistiche: solo il 9% degli studenti beneficiari del programma si è iscritto a facoltà umanistiche e uno su venti sostiene che la propria famiglia ha serie difficoltà ad arrivare alla fine del mese. È vero quindi che per ottenere i fondi non si devono avere garanzie esterne, ma ciò non toglie che i soldi arrivano a chi può in ogni caso già permettersi di restituirli.
Si va verso il modello degli Stati Uniti: l’educazione non è un diritto ma un privilegio. Certo, i numeri degli Usa – le ultime stime parlano di quindicimila miliardi di dollari in debiti studenteschi – sono diversi, ma come sostiene Hélène Mariaud dell’Esu, l’organizzazione europea delle studentesse e degli studenti: “Abbiamo aperto le porte a un sistema che agendo nell’ombra può diventare dominante. Con i prestiti la pressione è tutta sullo studente e le sue scelte di vita, le sue capacità, a volte anche la sua fortuna. Ma non possiamo lasciare un tema così importante agli individui, al caso. Bisogna assumersi una responsabilità, e la responsabilità è pubblica: è dello Stato che investe nell’istruzione per tutti, non della banca che sceglie con i suoi criteri chi se lo merita”.