(Premessa necessaria: chi scrive è convinto che la mobilitazione di lavoratori, studenti e attivisti francesi sia sacrosanta; che Valls e Hollande abbiano operato una forzatura indecente; che l’attacco ai diritti dei lavoratori sia l’ennesima concessione a un sistema che non funziona, che produce disuguaglianza e ingiustizia sociale)
Perché sul Jobs Act gli italiani non hanno reagito come stanno facendo i francesi? Perché sindacati e opposizioni non si sono mossi con la stessa forza dei cugini d’Oltralpe?
È questo il mantra che da giorni influenza il dibattito pubblico, con la ormai classica proliferazione degli indignati da tastiera, dei sociologi per sentito dire e degli analisti da 140 caratteri. Il tutto, ovviamente, fra semplificazioni, banalizzazioni, strumentalizzazioni e manipolazioni di dati e informazioni.
Il problema più rilevante, in questo caso, resta però il “frame narrativo” che si instaura: l’idea di una opposizione morbida alla riforma del lavoro, per responsabilità diretta dei sindacati e delle opposizioni, e indiretta del “cittadino italiano”, figura tra il mitologico e il caricaturale. Una lettura ingenerosa e semplicistica, che non tiene conto del merito delle questioni e delle chiare, evidenti, differenze. In sintesi: stiamo paragonando mele e lampadine (manco pere) e lo stiamo facendo male.
Nella migliore delle ipotesi, poi, il paragone non serve a nulla.
Il percorso delle due proposte è diverso e la differenza non è da poco. Il Jobs Act ha avuto un lungo percorso parlamentare, è stato votato dal Senato, poi modificato e votato dalla Camera e infine approvato definitivamente dal Senato. Sulla legge El Khomri grava invece la possibilità che il Governo bypassi completamente il Parlamento (ora il testo è al vaglio del Senato, in ogni caso), operando comunque in conformità della Costituzione. Il modello della democrazia rappresentativa è stato, in Italia, pienamente rispettato, al netto della valutazione nel merito del provvedimento e della possibilità, sacrosanta, che sia il conflitto sociale a influenzare e modificare le scelte della politica. In Francia è innegabile che su un tema del genere esercitare pressione minacciando di ricorrere all'opzione determinata dall'articolo 49 – 3 rappresenta una enorme forzatura e lo spostamento dello scontro in piazza e nelle fabbriche è la logica conseguenza delle scelte del Governo.
La situazione del mercato del lavoro nei due Paesi è diversa, per tutele contrattuali, ammortizzatori sociali, modello salari (salario minimo vs contrattazione collettiva… A proposito di deleghe non esercitate dal Governo italiano con il Jobs Act). L'operazione del Governo francese è condotta in un mercato del lavoro più "solido" ed equo per i lavoratori, che ha vissuto solo parzialmente il disastro della flessibilità a ogni costo e della moltiplicazione delle forme contrattuali. Quella del Governo italiano in qualche modo interveniva su un mercato già interessato da precarizzazione estrema e indebolimento del potere contrattuale di lavoratori e sindacati. Il Jobs Act non modificava l'orario di lavoro, come vorrebbe fare il Governo francese (non toccando il limite della 35 ore, ma abbassando drasticamente il compenso per gli straordinari), metteva ordine nella selva dei contratti (con risultati discutibili) e rappresentava in ogni caso un "avanzamento" per una fetta non piccola di lavoratori (si considerino solo le trasformazioni in tempo indeterminato, o meglio, nel "nuovo indeterminato").
Lo sciopero generale e l'azione dei sindacati. In Italia Cgil e Uil avevano indetto lo sciopero generale contro il Jobs Act per il 12 dicembre: stando ai dati da loro diffusi, alle 54 manifestazioni che si erano tenute in tutta Italia aveva preso parte un milione e mezzo di persone, mentre l’adesione allo sciopero era stata, sempre secondo gli organizzatori, di poco meno del 60%. Un mezzo flop, parliamoci chiaro. Altre sigle sindacali, organizzazioni studentesche, movimenti antagonisti hanno invece protestato a più riprese contro la riforma del lavoro del Governo sin dal suo primo passaggio parlamentare. Poca roba, obiettivamente.
In Francia le organizzazioni sindacali, con in testa la CGT, hanno finora indetto 10 giornate di sciopero generale e una serie di proteste – blocchi – picchetti – serrate. Solo nel mese di maggio sono scese in piazza circa 500mila persone. Dal 9 marzo, con la prima grande manifestazione “di massa”, la contestazione alla proposta di legge El Khomri ha visto crescere sempre di più la mobilitazione di lavoratori, studenti, antagonisti e semplici cittadini. Che è diventata anche "altro". Il 14 giugno la mobilitazione nazionale ha visto un imponente corteo sfilare a Parigi, con tanto di scontri con la polizia, fermi, arresti e feriti.
Una risposta evidentemente più massiccia e compatta, nonostante tanto in Italia quanto in Francia il fronte sindacale sia tutt’altro che unito. Se la Cgt ha guidato la protesta assieme ad altre sigle “radicali” e “autonome”, la Cfdt ha sottoscritto la riforma e non ha mai interrotto le trattative col Governo.
Però la lettura che vuole una responsabilità pressoché esclusiva dei sindacati italiani nell'incapacità di reagire con veemenza al Jobs Act e, per esempio, alla legge Fornero, dimentica con troppa facilità qual è stato il reale coinvolgimento dei lavoratori e del Paese in generale. "Contro la legge Fornero avete fatto solo 4 ore di sciopero, vergogna": si urla nei confronti del sindacato. Vero, il problema è che a quelle poche ore di sciopero aderirono in pochi, pochissimi. "Contro il Jobs Act non avete fatto la rivoluzione, vergogna", si grida nei confronti dell'opposizione. Vero, il punto è che da tempo non esiste un'opposizione unitaria, che gli "antagonisti" non hanno alcuna intenzione di aprire al dialogo con sindacati e partiti "tradizionali", che le forze di stampo populista oscillano tra propaganda e velleitarietà della proposta politica, che c'è un'intera fetta di lavoratori che dalle nuove norme ha avuto risposte, non problemi. Che ci sia un problema di rappresentanza, è indubbio. Che la frammentazione sia responsabilità esclusiva dei sindacati, è teoria risibile.
Forse varrebbe la pena di interrogarsi su quanto e cosa ha costruito in questi anni il fronte dell'opposizione alle politiche liberiste. Sull'eredità che lascia, a livello di proposta politica e capacità di mobilitazione, la fu sinistra italiana. Sul senso di impotenza appresa che determina indifferenza e disimpegno. Sul settarismo degli antagonisti de noantri, che non hanno mai pensato a movimenti inclusivi e aperti; e che, nel migliore dei casi, si sono mossi all'interno del sistema, senza rovesciare la bilancia. Sui guasti di anni e anni di demolizione dei corpi intermedi. Sull'incedere dei movimenti populisti, che sono qui da noi la garanzia di sopravvivenza del sistema. E, ovviamente sulla nostra incapacità di leggere il cambiamento della società, che ci fa rincorrere scenari irrealistici e ci impedisce di vedere il conflitto reale, quotidiano. Quello che ruota intorno al reddito, al denaro, ecco.
PS: Ecco, più che pensare al "perché non si fa come la Francia", che resta slogan vuoto, sarebbe il caso di interrogarsi su come agire, su come utilizzare gli strumenti per cambiare il Jobs Act. Tu che urli "italiani pecore", tu che invochi la lotta di piazza contro il Jobs Act, hai firmato i referendum per abolire i voucher o ripristinare le vecchie norme sui licenziamenti? Almeno sai che esistono?