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Opinioni
Gioventù Meloniana: inchiesta su giovani di FdI

Fanpage e il suo metodo d’inchiesta, necessario per smascherare le ipocrisie

La necessità di un’indagine giornalistica sotto copertura per stanare doppiezze che non sarebbero mai venute alla luce davanti a taccuini e telecamere.
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Non vi aspettate Humphrey Bogart col cravattino che esclama al telefono: «È la stampa, bellezza!» né Redford/Woodward in un garage scuro aspettando “Gola Profonda”.
Semmai qualcuno si prenderà la briga di scrivere la storia di questi giorni visti da dentro, racconterà del caldo italiano di fine giugno, mitigato dall’aria condizionata che scontenta sempre un paio di persone.

Racconterà di telefoni che vomitano notifiche social, racconterà di scarabocchi sui bloc notes ascoltando certe interminabili riunioni. Racconterà di deadline da rispettare. Racconterà dell’ansia di controllare che sia tutto a posto prima di esportare un filmato: «Hai fatto pure quello verticale?».
E racconterà dei messaggi di chi ti chiede – perché c’è sempre qualcuno che lo fa, ed è una fortuna – se torni tardi stasera.

Il metodo giornalistico in Fanpage e l'unità investigativa

Chi cerca di analizzare un «metodo giornalistico» deve farlo con attenzione: chiunque abbia mai frequentato una redazione sa che i giornali sono la chimica dei presenti. Un’inchiesta, un servizio, una corrispondenza, un editoriale risentono delle idee, delle discussioni, del clima interno ad una redazione.

Emerge la prima verità da cui partire: chi lavora in Fanpage.it ha molto a cuore il tema dell’antifascismo.

Un antifascismo in linea con la Costituzione italiana che garantisce nel suo famoso articolo 21 (anche) la libertà della stampa che «non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». Dalla Carta deriva la legge numero 69 del 1963, il faro (per ora) della professione che sancisce il «diritto insopprimibile» dei giornalisti alla libertà di informazione e di critica.

Prestate attenzione al termine «insopprimibile». È un aggettivo bellissimo. Odora di ciclostilati clandestini stampati in un casolare e diffusi nottetempo in bici, sfidando il coprifuoco, quando la stampa libera e non di regime era un dovere e una necessità che si poteva pure pagare con la vita.
Emerge una seconda verità: chi ha ideato, realizzato e finanziato Fanpage.it crede in quell’aggettivo. E sa che per questa libertà può anche rischiare di pagare un determinato costo. Anche oggi, anche se siamo in democrazia.

Ma perché, quanto costa la libertà di stampa? Non parlo solo di querele, temerarie o meno, non parlo solo di richieste di risarcimenti né di pressioni di vario tipo. La verità è che sono vari i prezzi da pagare. Cerco di spiegarne qualcuno.

Alcune delle migliori esperienze d'inchiesta arrivano dalle «investigative unit» che esistono in tanti grandi giornali nel mondo – quella di Fanpage si chiama Backstair -. Le unità investigative hanno tempi diversi rispetto alla cronaca e in generale più lenti di quelli della macchina del quotidiano nel suo complesso. Sono, in genere, economicamente più costose e non sempre portano risultati. Possono infatti verificarsi situazioni in cui le investigazioni e gli approfondimenti avviati si rivelano buchi nell’acqua e un lavoro su cui è stato investito del tempo e delle risorse finisca per portare in un vicolo cieco. In quei casi è corretto voltar pagina senza accanirsi.

È sull'inchiesta che si prova il carattere del cronista. Perché tu la devi volere una inchiesta. La devi cercare. La devi difendere. La devi sostenere moralmente e a volte anche economicamente e penso ai tanti freelance che lavorano su approfondimenti enormi.

Non è cieca ostinazione, sia chiaro, ma se i fatti ti mostrano che qualcosa c'è, tu un'inchiesta la devi portare avanti. Anche per molto tempo. Non ci si ferma se si pensa che la pista è quella giusta; del resto il compito del giornalista è quello di scavare. In alcuni casi devi solo pazientemente attendere che il lavoro dia i suoi frutti.

Pensate al "Boston Globe" e a Spotlight, l’unità specializzata in inchieste che scoprì i casi di abusi su minori nella Chiesa Cattolica statunitense. Pensate ai "Panama Papers" sui paradisi fiscali nel mondo emersi nell'inchiesta condotta dall'International Consortium of Investigative Journalism. Lavori enormi, impossibili senza impegnare risorse professionali ed economiche, impossibili senza impegnare tempo per verifiche, riscontri, collegamenti, testimonianze, appostamenti, analisi di documenti e dati.

La legittimità dell'inchiesta di Fanpage "Gioventù Meloniana"

Veniamo dunque all'ultima inchiesta di Fanpage, «Gioventù meloniana» incentrata sul racconto di "Gioventù Nazionale", la sezione giovanile di Fratelli d’Italia, partito di maggioranza nel nostro Paese che esprime la Presidente del Consiglio, mezzo governo e parte della classe dirigente italiana. L’inchiesta è stata possibile perché una giornalista si è infiltrata nella struttura partendo da una collaborazione – non retribuita – in una testata di area.

Il profilo della cronista infiltrata era quello di una giovane moderata: una liberale con idee di destra, lontana però da estremismi d’ogni tipo. Come sia andata la vicenda è ormai chiaro: la professionista sotto copertura viene passo passo introdotta in un mondo di estrema destra in cui c'è gente che non si vergogna a dichiarare e mostrare tutto l’apprezzamento per il nazifascismo spazzato via dalla Storia ma evidentemente ancora vivo in certi ambienti.

Tralasciamo il contenuto delle due puntate, se n’è già parlato. Guardiamo tecnica e contesto normativo di riferimento. Se date una scorsa alla legge che regola il lavoro giornalistico in Italia, approvata oltre sessant’anni fa, vi rendete conto di quanto sia stata scritta bene. I diritti dei giornalisti a pubblicare, come dicevamo prima sono «insopprimibili». A patto però che si rispetti la «verità sostanziale dei fatti» e «osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede».

Quel che ha pubblicato Fanpage è vero? Assolutamente si. Sono stati rispettati i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede? Assolutamente si.

E ora veniamo ad un argomento sollevato da chi – per convenienza politica e ideologica – ha cercato di denigrare il lavoro d’inchiesta, ovvero l’uso di una giornalista sotto copertura. Qualche politico, nel puerile tentativo di screditare l’indagine, l’ha ridotta ad un momento in cui sarebbe stata quasi carpita la buona fede di ingenui e candidi ragazze e ragazzi.

Non è così, ovviamente: se la storia è stata pubblicata è perché era importante portarla alla luce e perché le persone coinvolte hanno dei ruoli pubblici nella destra italiana. L’indagine giornalistica undercover non è un gioco e non è nemmeno una scelta facile. Viviamo tempi in cui con due clic si conoscono vita, morte e miracoli di una persona, dunque calarsi in un contesto con l’idea di raccontarlo ha i suoi stress. E i suoi rischi. Non è nemmeno una pesca miracolosa perché come già detto a volte non si trae niente dal lavoro svolto e occorre lasciar perdere.

Il testo unico dei doveri del giornalista, ovvero il fondamento etico-deontologico della professione in Italia, impone a chi fa questo lavoro di «rendere comunque, sempre note la propria identità e professione quando raccoglie notizie». Si deroga non facilmente a questa norma. Ma si è sereni nel farlo quando vi è un elemento, fondamentale nel nostro lavoro: il chiaro e rilevante interesse pubblico. È rilevante sapere cosa succede nella sezione giovanile del primo partito politico del nostro Paese? Si. Io vorrei sapere se qualcuno inneggia a Mussolini, Hitler, al disciolto partito fascista vietato per legge e ha un ruolo nella politica italiana, anela a scalare le gerarchie di partito o addirittura a candidarsi a elezioni.

Perché Fanpage fa giornalismo sotto copertura

Perché, dunque, la scelta di andare sotto copertura? Ci sono casi in cui per un/una cronista è impossibile avviare un’indagine presentandosi con la sua vera identità. I «Sieg Heil» nazisti, le mani tese nel saluto romano, i «Duce, Duce!», i coretti fascisti, gli schifosi discorsi xenofobi e antisemiti sarebbero mai venuti alla luce davanti ad un taccuino o ad una telecamera? La domanda è retorica, la risposta è scontata: assolutamente no.

Questa tesi è confermata da alcuni dei soggetti coinvolti nell’inchiesta, i quali mostrano un'attenzione scrupolosa nel presentarsi in un certo modo ai giornalisti e adottano comportamenti completamente diversi quando sono al di fuori dell’osservazione diretta di soggetti esterni alla cerchia.

Il senso del lavoro dell’inchiesta di Fanpage è tutto qui: smascherare una clamorosa doppiezza, una profonda ipocrisia, una collaudata fabbrica di doppi fondi ideologici. Possibile solo con questo metodo, solo con questa tecnica.

«È consentito?» ha chiesto retoricamente e pubblicamente Giorgia Meloni, rivolgendosi al Presidente della Repubblica, con una domanda violenta come una colpa. Dovrebbe saperlo la premier, che è peraltro giornalista professionista: l'indagine sotto copertura esiste da quasi 140 anni, visto che la prima grande inchiesta risale all'anno 1887, pubblicata sul New York World di un certo Joseph Pulitzer il cui nome è oggi legato ad uno dei più importanti premi giornalistici al mondo.

Quante cose non avremmo saputo senza i giornalisti sotto copertura? Tantissime. Sicuramente oggi ne sappiamo una in Italia grazie al lavoro di Fanpage: Fratelli d'Italia ha un problema serio col suo settore giovanile.

Sicuramente a molte anime belle è anche chiara un'altra cosa: il giornalismo d'inchiesta non chiede il permesso a nessuno. Non lo ha chiesto a esponenti del Partito Democratico, ("Bloody Money" vi ricorda qualcosa? E le primarie del Pd di Napoli?) e non lo chiede nemmeno a leader e maggiorenti di Fratelli d'Italia.

Semmai qualcuno si prenderà la briga di scrivere la storia di questi giorni visti da dentro, racconterà la grande professionalità e – tutto sommato – la serenità con la quale Selena Frasson, Arsenio Imperioso, Cristiana Mastronicola, Luigi Scarano, ovvero l’attuale team Backstair di Fanpage, hanno condotto questo lavoro e affrontato l'enorme pressione che ne è seguita. Serenità che nel lavoro giornalistico è figlia della libertà editoriale, senza la quale non si va da nessuna parte.

Qualche mese fa il Capo dello Stato Sergio Mattarella ebbe a dire sulla libertà di stampa in Italia che, in quanto elemento «indispensabile» della nostra democrazia «sta a cuore alle istituzioni, chiamate a tutelarla ciascuno nelle proprie competenze e nei propri ambiti e, naturalmente, nelle proprie responsabilità».

Basti questo a rassicurare ogni giornalista e ogni giovane aspirante cronista italiano: la bussola punta verso il Quirinale e alle parole del Presidente della Repubblica.

Fino a quando resterà così, in redazione potremo ancora dire con una relativa tranquillità la frase più importante che si può pronunciare in un giornale: «Va bene, si pubblica».

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Giornalista professionista, capo cronaca Napoli a Fanpage.it. Insegna Etica e deontologia del giornalismo alla LUMSA. È autore del libro "Se potessi, ti regalerei Napoli" (Rizzoli). Ha una newsletter dal titolo "Saluti da Napoli". Ha vinto il Premio giornalistico Giancarlo Siani nel 2007 e i premi Paolo Giuntella e Marcello Torre nel 2012.
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