Europee, Gori: “Pd diviso? Chi viene accolto nel partito dovrebbe almeno evitare le provocazioni”
Dopo un'esperienza decennale sul terreno della politica locale, ora il dem Giorgio Gori, alle spalle due mandati da sindaco di Bergamo, corre per un seggio al Parlamento europeo nella circoscrizione Nord Ovest. Uno dei simboli dell'area riformista del Partito Democratico, il primo cittadino conosce bene le divisioni che, da tempo ormai, attraversano il partito su molti temi, a partire dai conflitti internazionali. "Su questo è importante che la linea del partito sia chiara", dice in un'intervista a Fanpage.it. "Chi dice cose diverse le dice a titolo personale. La si può pensare diversamente e trovare comunque accoglienza nelle liste del Pd? Sì, ma in quel caso si dovrebbe almeno evitare di dare luogo a quotidiane provocazioni, anche solo per rispetto della comunità di cui si è ospiti".
Tra gli obiettivi annunciati da Gori nella sua campagna elettorale c'è quello di "Portare Bergamo in Europa" per trasformarla a tutti gli effetti in una "città europea". Per il sindaco dem, alle prese con la guida della città lombarda negli anni della pandemia Covid, la sanità è un'altra priorità su cui l'Europa dovrebbe concentrarsi. "Oggi l’Ue ha scarsissime competenze sul fronte sanitario", dice. Ma se si vuole fronteggiare "l’inevitabile crisi di sostenibilità degli attuali sistemi nazionali, non può fare a meno di occuparsene". In tema di ambiente e transizione ecologica, invece, pur condividendo gli obiettivi del Green Deal Gori ribadisce: "Non possiamo permetterci di promuovere la sostenibilità ambientale sacrificando la sostenibilità economica e sociale. Ecco perché dico che bisogna ”accompagnare” le imprese".
Lei è sindaco di Bergamo da ormai dieci anni. Ora è candidato alle elezioni europee con il Pd nel Nord Ovest. Come mai il salto in Europa?
Per dieci anni ho fatto il sindaco a Bergamo, ma ora voglio portare in Europa la mia esperienza. Considero l’orizzonte europeo fondamentale per il nostro futuro e desidero contribuire al completamento del progetto europeo nella direzione di una maggiore integrazione e coesione tra i Paesi che ne sono membri. Credo che il pragmatismo di un sindaco – allenato a concentrarsi non solo sul “cosa”, ma altrettanto sul “come”, ovvero sugli strumenti, le leve, le risorse necessarie a cogliere i grandi obiettivi – possa essere utile.
A tal proposito ha dichiarato di voler “portare Bergamo in Europa”. Che cosa significa?
In questi anni Bergamo è molto cresciuta, coltivando l’ambizione di uscire dalla dimensione provinciale per diventare a tutti gli effetti una città “europea”. Questa esperienza ha fatto emergere alcune specificità: la forte cooperazione tra le istituzioni e le espressioni della società civile, la cooperazione tra pubblico e privato, la spinta all’innovazione, il valore della formazione come leva di emancipazione e di competitività, la qualità del welfare come condizione di sviluppo – per citarne alcune. “Portare Bergamo in Europa” significa farsi portatore di questi valori e di queste prassi virtuose.
Lei da primo cittadino di una città come Bergamo ha vissuto le difficoltà dell’emergenza pandemica che ha colpito soprattutto il suo territorio. Da questo punto di vista cosa crede che debba fare l’Ue per rilanciare la sanità e prepararsi meglio alle pandemie? Davanti allo stato del servizio sanitario nazionale forse serve fare altro oltre al Next Generation EU?
Oggi l’Ue ha scarsissime competenze sul fronte sanitario, ma io credo non passa fare a meno di occuparsene. Penso alla ricerca volta a prevenire il diffondersi di nuove epidemie, alla ricerca pubblica su nuovi farmaci per curare le malattie rare – poco interessante per l’industria privata – e penso soprattutto alla straordinaria utilità che avrebbe l’applicazione degli algoritmi di intelligenza artificiale ai dati sanitari dei cittadini europei, se riuscissimo a raccoglierli e a disporne in forma digitale. Si tratterebbe del più potente strumento diagnostico al mondo. E ancora, penso alla necessità di una competenza europea in materia di sanità per fare fronte all’inevitabile crisi di sostenibilità degli attuali sistemi nazionale sotto la pressione delle attuali dinamiche della demografia.
Lei è anche uno dei volti storici dell’area riformista del Pd. In occasione della composizione delle liste per le europee sono riemerse alcune delle divisioni che da diverso tempo attraversano il partito. Penso alla posizione sul sostegno all’Ucraina, sul conflitto in Medio Oriente, ma anche a temi etici come il fine vita. Qual è il suo parere su questo?
Penso che su alcuni temi di carattere etico, e in particolare su quelli con implicazioni religiose, la libertà di coscienza sia dovuta. Su altri, di natura più politica, è invece importante che la linea del partito sia chiara. Riguardo al sostegno all’Ucraina e al conflitto in Medio Oriente il Pd ha fin qui tenuto una posizione coerente, e in questa posizione mi riconosco. Chi dice cose diverse le dice a titolo personale. La si può pensare diversamente e trovare comunque accoglienza nelle liste del PD? Sì, ma in quel caso si dovrebbe almeno evitare di dare luogo a quotidiane provocazioni, anche solo per rispetto della comunità di cui si è ospiti.
Da poco lei ha dichiarato che “nel Partito democratico manca un riferimento forte ai temi della competitività e della crescita” e a chiesto alla segretaria Elly Schlein di “non parlare solo di diritti”. Secondo lei, il Pd come dovrebbe agire per riavvicinarsi al mondo delle imprese?
Le priorità scandite da Elly Schlein sia parlando dell’Italia che dell’Europa sono sacrosante. Condivido totalmente la battaglia per per salari migliori e per la sanità pubblica, ma penso che senza crescita e senza una maggiore produttività non avremo né gli uni né l’altra. E così per l’obiettivo di un’Europa “più sociale, più verde e più giusta”: tutto giusto, ma non possiamo non vedere la perdita di competitività dell’economia europea: se non troviamo il modo di convogliare robusti investimenti pubblici e privati a sostegno dell’innovazione tecnologica e della transizione ecologica della nostra manifattura, difficilmente avremo la possibilità di concretizzare il Green Deal e di rafforzare il welfare europeo.
Per quanto riguarda invece il programma europeo del Pd, nel capitolo Green il partito si impegna a rinnovare l’impegno per l’ambiente e la sostenibilità. Su questo lei ha dichiarato che serve “un accompagnamento economico delle aziende nella transizione ecologica, affinché non ci siano perdite economiche”. Come?
Non possiamo permetterci di promuovere la sostenibilità ambientale sacrificando la sostenibilità economica e sociale. Avvicinare gli obiettivi del Green Deal non è privo di costi, anzi: costa la sostituzione degli impianti e delle tecnologie manifatturiere, costa fare a meno dei fitofarmaci in agricoltura, costa la rinuncia alle automobili con motore endotermico. Costa sia in termini economici, sia di possibile sacrificio di interi settori economici. Significa che è meglio stare fermi? No, ma il Green Deal senza soldi rischia di non arrivare al traguardo, e di alimentare opposizioni che, in democrazia, possono provocare il fallimento delle politiche ambientali europee. Ecco perché dico che bisogna ”accompagnare”: non perdere di vista l’obiettivo dei contenere il cambiamento climatico, ma procedere con gradualità, supportando economicamente le trasformazioni, implementando la ricerca sulle nuove tecnologie a basso impatto, recuperando il principio laico della neutralità tecnologica secondo cui non conta tanto il colore del gatto quanto che sia in grado di acchiappare i topi, e soprattutto sviluppando significativi investimenti comuni, tema che ci riporta al vero nodo politico: vogliamo più Europa – e quindi maggiore integrazione, un passo indietro degli Stati nazionali, un bilancio comune degno di questo nome, la capacità di fare investimenti robusti, anche a debito, o vogliamo meno Europa? Il destino del Green Deal dipende dalla risposta a questa domanda.
Un’ultima domanda. In un’occasione lei ha raccontato di conoscere Giovanni Toti per via dell’esperienza condivisa in Mediaset dove siete stati colleghi di lavoro. Come commenta l’inchiesta che ha travolto il governatore ligure? Crede che dovrebbe dimettersi?
Personalmente gli auguro di poter dimostrare la sua innocenza. Sul piano giuridico, viviamo in uno Stato di diritto e quindi ritengo che sia innocente fino a sentenza definitiva. Sul piano politico penso invece che sia complicato continuare a fare il presidente di un’importante istituzione con quelle accuse sulla testa. Fossi in lui, probabilmente mi dimetterei per non danneggiare la Regione Liguria e per potermi difendere con maggiore libertà.