Europee, Fiano (Pd): “Riconoscimento unilaterale della Palestina non aiuta: servono due popoli, due stati”
Deputato di lungo corso nel Partito Democratico, Emanuele Fiano questa volta scende in campo internazionale. Ha infatti accettato la sfida delle Europee ed è candidato nella circoscrizione Nord-Ovest. Figlio di Nedo Fiano, ebreo sopravvissuto ad Auschwitz, ha fatto del suo impegno a presidio della democrazia e contro le derive autoritarie e neo-fasciste la sua principale battaglia politica. In quest'intervista a Fanpage, lui che è "Segretario nazionale di Sinistra per Israele" chiede a gran voce un cessate il fuoco su Gaza ma non è d'accordo con chi propone un riconoscimento unilaterale dello Stato di Palestina – proposta lanciata dal presidente spagnolo Sánchez e sposata da Elly Schlein – perché la soluzione non può che passare dal "mutuo riconoscimento dei due popoli e dei due stati". Poi invita a non identificare Israele con chi lo governa: "Qualcuno accusa forse l’intero popolo palestinese degli orrendi crimini di Hamas? Non bisogna perdere la bussola, in quella terra si scontrano due diritti e non un diritto ed un torto".
Emanuele Fiano, dopo tanti anni nel Parlamento italiano, cosa l’ha spinta a candidarsi alle Europee?
Come diceva Giorgio Napolitano, indimenticato Presidente della Repubblica: “Nessuno stato europeo può illudersi di contare solo sulle sue forze”. Non c’è futuro per il nostro paese fuori dalla grande casa comune europea. E l’Unione è certamente un valore in sé, ma non è neutra: chi ne ha la responsabilità di governo fa davvero la differenza. Non è questione di “Occidente”, ma di sinistra e destra, di coalizioni democratiche e progressive o conservatrici e reazionarie. È fondamentale che non siano quest'ultime ad avere la meglio, tanto più in una fase così difficile e tragica come questa. Per questo mi sono candidato, per fare la mia parte in questa battaglia.
In tanti Paesi europei ci sono partiti di estrema destra che crescono nei sondaggi. Perché, secondo lei? Pensa che dopo le prossime europee ci sarà uno spostamento a destra dell’Ue?
La tragica storia del secolo scorso ci insegna che lo “stato d’animo” di paura, solitudine e fragilità che si può generare nel corpo della società può essere terreno fertile per forze radicali e antidemocratiche. Se non si trovano risposte concrete in politiche improntate alla giustizia sociale, all’equità e all’inclusione, il rischio di uno spostamento a destra c’è. Ma siamo qui proprio per evitarlo. Come Socialisti & Democratici siamo stati chiarissimi: nessun ammiccamento, nessuna apertura a forze che non hanno nei loro programmi e nel loro DNA i valori fondanti dell’Europa democratica e la piena opposizione ad ogni autoritarismo, di qualsiasi colore.
Veniamo in Italia. La nostra destra fatica a definirsi "antifascista", tutt'al più sono "afascisti"… L'antifascismo non disegna più dei valori condivisi?
Voglio essere chiaro: chi non è antifascista non è democratico. Non lo dico io, è scritto nella Costituzione. Basta leggere l’articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. E cos’è questo se non l’esatto opposto di ciò che fu il fascismo e di ciò che è il pensiero della destra nazionalista e radicale di oggi? Ecco perché, anche oggi qui come in tutta Europa, l’antifascismo è il valore fondante dei nostri ordinamenti democratici. Negarlo o ometterlo significa non sostenere la pienezza della democrazia. Con buona pace del frontman della Lega, il generale Vannacci, che afferma di non volersi dichiarare antifascista e di andare al mare il 25 aprile.
La destra di Giorgia Meloni sta "orbanizzando" l'Italia? Diventare una democrazia illiberale è un rischio?
Se guardiamo con attenzione al cosiddetto “premierato”, un vero e proprio stravolgimento dei presupposti stessi della Repubblica democratica, il dubbio viene. Se a questo uniamo uno spregiudicato uso di parte della Rai, con tanto di smaccate censure, e certe idee sulla giustizia come la cancellazione dell’obbligatorietà dell’azione penale, il dubbio peggiora. È chiaro che pensare di far eleggere direttamente il primo ministro in combinato disposto con una legge elettorale che assegna la maggioranza assoluta a un partito che prende un voto in più del secondo, senza nessuna soglia, non sia proprio il massimo del pensiero democratico e liberale. Neanche Mussolini con la famigerata “Legge Acerbo” del 1923 arrivò a tanto: lì almeno c'era una soglia minima al 25%.
Sul conflitto in Medio Oriente, la convince la postura che l’Unione Europea ha tenuto fino a questo momento? Cosa dovrebbe cambiare con l’inizio della prossima legislatura?
A me non convince e ovviamente neppure soddisfa l’idea che l’Europa non abbia una vera politica estera comune e dunque non abbia un ruolo vero nel mondo. Per averlo, serve una difesa comune europea, che possa intervenire per mantenere la pace e che permetta di sedersi ai tavoli dove la politica estera viene determinata, con un ruolo e una sola voce. Se la situazione è così grave proprio ai nostri confini è anche perché non c'è una iniziativa diplomatica unica europea.
Lei è segretario nazionale dell’associazione “Sinistra per Israele” e ha già ribadito la richiesta di un cessate il fuoco e di liberare gli ostaggi israeliani. L’iniziativa a Rafah è un errore del governo Netanyahu? E cosa pensa della richiesta di un “riconoscimento europeo” per lo Stato della Palestina, partita anche dalla segretaria Schlein?
Le drammatiche notizie che giungono da Gaza impongono di rilanciare con forza la necessità di una soluzione politica che realizzi gli obiettivi legittimi di Israele e del popolo palestinese. Un cessate il fuoco deve essere il primo passo di un’azione diplomatica internazionale che porti la liberazione degli ostaggi, la fine dell’attività terroristica di Hamas e il blocco degli insediamenti e delle violenze dei coloni in Cisgiordania. La definizione di “tragico errore” per la morte di oltre 45 civili a Rafah non può più giustificare la scelta del governo Netanyahu di procedere in un conflitto che appare sempre più funzionale solo alla permanenza di un esecutivo che ha da tempo perso la maggioranza di consensi nella democrazia israeliana. Per questo occorre sostenere la società democratica israeliana che da tempo richiede un cambio della leadership di governo. In questo senso, il riconoscimento unilaterale dello Stato di Palestina non penso sia qualcosa che aiuti l’evoluzione della situazione, che deve invece risolversi come negli accordi di Oslo del 1993, cioè nel mutuo riconoscimento dei due popoli e dei due stati.
Il riaccendersi del conflitto a Gaza ha fatto aumentare anche gli episodi di antisemitismo. Ma non si rischia a volte di confondere l'antisemitismo con il dissenso nei confronti delle politiche dello stato d'Israele?
Personalmente non credo proprio che sia diffuso questo possibile fraintendimento nella comunità ebraica, e ove ci fosse sarebbe un errore. Criticare il governo di Israele quale che sia è un diritto come lo è criticare qualsiasi governo. Quello che spaventa è trattare lo Stato di Israele con un approccio diverso da quello che si usa per altri casi. Perché il mondo non ha gridato al genocidio per i 40mila morti civili della guerra occidentale contro l’Isis a Mosul? Oppure per i 500mila morti della guerra civile di Siria o ancora per i 270mila civili della guerra civile nello Yemen? Non ricordo per quelle stragi alcuna denuncia alla Corte Penale Internazionale dell’Aia. Le responsabilità di chi governa in Israele non vanno confuse con lo Stato di Israele. Quando vengo apostrofato come – testuale – schifoso assassino ebreo per quello che sta succedendo a Gaza cosa devo pensare? Qualcuno accusa l’intero popolo palestinese degli orrendi crimini di Hamas? C’è molto lavoro culturale oltre che politico da fare, non bisogna perdere la bussola. In quella terra si scontrano due diritti e non un diritto ed un torto. Chiunque esca da questa equazione che deve portare a due stati per due popoli rischia la discriminazione di uno dei due diritti e di uno dei due popoli.