Equal pay day: per la differenza salariale le donne hanno due mesi in meno di stipendio
C’è un periodo dell’anno in cui le donne è come se non lavorassero. O meglio, come se non venissero stipendiate. Questo lasso di tempo è partito lo scorso sabato 3 novembre, giornata dell’EU Equal pay day. Da quella data infatti, è iniziato il conteggio dei giorni in cui, per via del differenziale salariale tra uomo e donna, il sesso femminile non percepisce quella parte di remunerazione che le differenzia dal sesso maschile.
Si parla infatti di uno scarto pari al 16,2% in Europa, che in Italia si riduce al 5,3% non perché gli stipendi tra uomini e donne siano più simili, ma perché queste ultime sono meno presenti all’interno del mondo del lavoro. Dove alcune percentuali si abbassano, se ne alzano altre: in Italia la partecipazione lavorativa tra uomini e donne si differenzia del 19,8%, soprattutto quando si tratta di donne poco istruite e con salari ridotti. Questa percentuale si abbassa leggermente nel settore privato, dove il differenziale di genere è pari al 17,9%, rimettendosi in linea con gli altri stati. Di conseguenza quindi, come si vede da un grafico di Eurostat, si riduce il gap salariale rispetto agli altri paesi europei, ma aumenta la disuguaglianza quando si parla di partecipazione, visto che in Europa la media del differenziale è dell’11,5%. La data di inizio del periodo in cui le donne smettono simbolicamente di essere pagate rispetto ai colleghi maschi viene calcolata in base all’anno e sia nel 2018 che nel 2017 è caduta il 3 novembre, dimostrando che non ci sono stati margini di miglioramento negli ultimi 365 giorni.
Da cosa derivano le differenze salariali
Principalmente i fattori sono tre: la crescita interna all’azienda dovuta a delle promozioni, la crescita interna dovuta all’esperienza oppure la crescita dovuta alla mobilità tra imprese. Analizzando ciò che è avvenuto tra il 1985 e il 2012, grazie a un campione dati dell'Inps, si nota che all’inizio della carriera lavorativa gli stipendi di entrambi i sessi sono circa gli stessi. Il divario inizia presto a emergere, partendo da una base di circa il 9% ai venticinque anni e raddoppiandosi intorno ai cinquant’anni. E questo accade non solo per la differenza di partecipazione nel mercato del lavoro, ma anche perché si parte da una disuguaglianza del 9% tra gli stipendi che aumenta durante il percorso lavorativo. Secondo la letteratura economica, inoltre, le promozioni all’interno delle imprese sono dedicate principalmente agli uomini e anche questo spiega l’aumento del gap salariale tra i sessi: tra i 25 e i 50 anni, gli avanzamenti di carriera motivano il 54% del divario salariale, la mobilità spiega il 20% e la crescita interna indipendente dalle promozioni il 26%.
Sullo sfondo, si è notato che le donne lavorano più spesso part-time, lavorano in settori a basso reddito e sono meno inclini, rispetto agli uomini, a chiedere una promozione. E di solito non lo fanno per motivi personali, come può essere la difficoltà a bilanciare il lavoro e la famiglia, così come ancora pesa, all’interno delle aziende, la questione della maternità. È chiaro che è un problema che pare non trovare una soluzione efficace. Così, si mantiene non solo l’ingresso nel mondo del lavoro per donne e uomini differente, ma si incrementa la disuguaglianza salariale e di conseguenza le discriminazioni di genere. Non solo, perché questo andamento ha poi ripercussioni sul pensionamento, creando un divario previdenziale di genere, nella media europea, del 36,6%. Sarebbe necessario intervenire politicamente con misure volte a tutelare e garantire gli stessi diritti lavorativi sia alle donne che agli uomini. Al momento però, la legge di bilancio non prevede nulla per l’occupazione femminile.