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Opinioni

Eppure, non moriremo tecno-cristiani

Costruire l’alternativa partendo dai temi concreti e dalle problematiche reali della gente? Oppure ripensando una piattaforma ideologica che disegni un nuovo modello di società? O entrambe le cose? Una cosa è certa, noi “non moriremo democristiani” (o no?).
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Era il 1994 e la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto sembrava inesorabilmente destinata a guidare il Paese. Tangentopoli aveva travolto ciò che restava della classe politica della Prima Repubblica e un misto di indignazione e volontà di cambiamento sembrava dover spingere il fronte progressista ad una schiacciante vittoria elettorale. "Non moriremo democristiani", questo è sicuro. Poi il responso delle urne, il "cappotto" in Sicilia e Lombardia, l'exploit della Lega ed il trionfo dell'imprenditore amico di Craxi, nemico dei "comunisti", nonché tessera numero 1816 della P2.

Era il 1996 quando le note de "La canzone popolare" e la divisione nel fronte opposto spingevano Romano Prodi a Palazzo Chigi. Certo, un democristiano. Onesto, preparato, ma pur sempre un democristiano (sia chiaro, non che le due cose si escludano a vicenda). "Non moriremo democristiani, il Professore ha il consenso degli italiani e serve tempo per costruire l'alternativa", questo è sicuro. Da lì al '98 il passo è breve, con il primo Governo retto da un ex esponente di rilievo del Partito Comunista, le tante contraddizioni, gli "inciuci", le scelte impopolari, fino al traumatico esito delle elezioni regionali del 2000, il viatico per il nuovo trionfo elettorale del Cavaliere di Arcore. Di contorno una classe politica praticamente immutata, con clamorose "riabilitazioni" e la riproposizione continua degli schemi "classici" della Prima Repubblica: lottizzazione e spoil system, corruzione e connivenza, decisionismo mascherato dietro "bizantinismi parlamentari", assistenzialismo e clientelismo.

Prodi-Berlusconi1996

Ma la lezione del "saper aspettare, digiunare e pensare" è stata da tempo assorbita a sinistra, così arriviamo al 2006, con la sofferta vittoria di Romano Prodi e la maggioranza dei "senatori a vita" (secondo la vulgata tradizionale, certo poco importa che la situazione fosse alquanto diversa). "Beh, ancora un ex democristiano, ma del resto ormai siamo dello stesso partito e ci riconosciamo (tutti) nei valori della socialdemocrazia", dunque nessun problema e la solita certezza. Un compromesso, ma più che altro una presa di coscienza del cambiamento in corso. Ma anche una forzatura, con evidenti ripercussioni sull'immobilismo del Governo, stremato dall'impossibilità di trovare una sintesi fra spinte e pulsioni contrapposte, fra inclinazioni e provenienze "ideologico – culturali" così diverse. E non è un caso che "tecnicamente" il pollice verso al Governo del professore verrà proprio da un ex enfant prodige della Balena bianca, quel Clemente da Ceppaloni che ha resistito indenne a tante stagioni della politica, fino all'avvento di Veltroni e della sua autosufficienza.

Ed infine eccoci giunti ai "giorni nostri", con il Governo Berlusconi IV spazzato via dall'impennata dello spread e da contingenze varie, dopo una lunga agonia che sarà ricordata come la manifestazione lampante di uno dei periodi più bui della storia repubblicana (tra scandali, immobilismo, riforme abbozzate e nuovi tragicomici personaggi alla ribalta della cronaca politica). E dunque, con il consenso di larga parte degli elettori, sotto la spinta degli incoraggianti risultati delle amministrative 2011, avendo di fronte un campo diviso, in crisi di identità e finanche di leadership, sembrava finalmente arrivato il momento per le forze progressiste di prendere in mano le redini del Paese. E invece nisba. Vuoi per i limiti di una classe dirigente giunta impreparata e divisa "all'appuntamento con la storia", vuoi per una gestione piuttosto discutibile dell'emergenza – crisi, vuoi per le pressioni internazionali ed un certo "clima complessivo" (che di fatto ha impedito che anche in Italia, come avvenuto ad esempio in Spagna, si scegliesse la strada delle urne), al posto di ciò che restava del rivoluzionario Silvio, si è insediato il professor Mario Monti. Un tecnico, chiamato a ridare credibilità all'Italia, fiducia ai mercati e lustro alle istituzioni, ma soprattutto a mettere in pratica quella che più di una volta abbiamo definito come "la cura omeopatica alla crisi ec0nomica", come da ricetta europea. Con buona pace della democrazia e della sovranità popolare (senza esagerare ovviamente).

E dunque, come la mettiamo? Dal non morire democristiani, al non morire tecno – cristiani magari, visto e considerato tra l'altro che la linea "confessionale" non è mai stata messa in discussione. Anche perchè non si è mai trattato di scegliere fra i buoni e i cattivi, fra diversi orientamenti politici con pari dignità e "lignaggio". Il "non morire democristiani" aveva in se qualcosa di più, che probabilmente non era neanche in relazione con la Democrazia Cristiana in quanto tale (del resto, verrebbe da citare una considerazione di Nichi Vendola: "Mai Don Luigi Sturzo pensò a un partito clericale e liberista"). Era il rifiuto consapevole di un certo modo di intendere la politica (per certi versi attenuatosi dopo la "scoperta" del consociativismo); era la speranza di un cambiamento radicale di pratiche "secolari" e di un certo modo di intendere il potere; era il rifiuto del qualunquismo, della demagogia, del populismo e della retorica; era la volontà di impegno, di partecipazione ad uno stravolgimento possibile; era la ferrea determinazione a non rinunciare al sogno di un mondo migliore.

E pur non volendo riproporre modelli datati e superati dal corso degli eventi, siamo pronti a rinunciare a cuor leggero a tutto questo? Siamo convinti di voler rinunciare ad una prospettiva più ampia che, lontano dagli slogan e dalla propaganda, dia nuovo vigore e senso all'impegno e alla partecipazione alla vita politica (a destra, al centro, a sinistra)? Siamo sicuri di voler "morire" tecno-cristiani?

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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