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Ennesimo colpo al Jobs act: un’altra parte della riforma renziana è stata dichiarata incostituzionale

La Corte costituzionale ha riconosciuto l’eccesso di delega rispetto all’art. 2 co. 1 del d.lgs. 23/2015: limitando la reintegrazione alle sole nullità espressamente previste, il governo Renzi violava le indicazioni parlamentari, creando vuoto di tutela anche per casi gravi come i licenziamenti ritorsivi.
A cura di Roberta Covelli
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Sono passati dieci anni dall’insediamento del governo Renzi e, all’indomani di questo decimo anniversario, la Corte Costituzionale ha emesso una nuova sentenza sul Jobs act, uno degli atti simbolo dell’esecutivo renziano. La censura della Consulta colpisce ancora una volta il decreto legislativo 23 del 2015, abrogando un avverbio, "espressamente", e così allargando l’applicazione della reintegra a tutti i casi di nullità del licenziamento. Ma, per comprendere la pronuncia del giudice costituzionale, occorre aver presente tanto le prerogative governative e parlamentari, quanto la logica di fondo della riforma del lavoro renziana.

La logica del contratto a tutele crescenti introdotto dal Jobs act

Elemento centrale del cosiddetto Jobs act era l’introduzione del contratto a tutele crescenti, divenuto il rapporto di lavoro dipendente tipo per tutti gli assunti a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015.

In realtà, il nuovo contratto non ha nulla di diverso dai contratti stipulati prima di quella data, se non per la disciplina contro i licenziamenti illegittimi, che risulta particolarmente ridotta.

La logica di fondo del progetto renziano era infatti la riduzione delle tutele contro il recesso ingiustificato, attraverso la previsione di rimedi indennitari: secondo le intenzioni di chi scrisse la riforma, la sanzione principale contro un licenziamento ingiusto sarebbe dovuta essere una somma di denaro, prevedibile dal datore di lavoro, calcolata sulla base della sola anzianità di servizio del lavoratore entro un minimo e un massimo (inizialmente da 4 a 24 mensilità, poi innalzate dal cosiddetto decreto dignità in un intervallo da 6 a 36 mensilità).

Restavano salve alcune eccezioni, per i casi più gravi: il decreto legislativo 23/2015 prevede infatti ancora il rimedio della reintegrazione nei casi di licenziamento discriminatorio o nullo "perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge".

Ma è proprio questa locuzione, contenuta al comma 1 dell’art. 2, ad aver richiesto l’attenzione della Consulta, in quanto difforme dalla delega parlamentare.

L’eccesso di delega: il decreto legislativo non rispetta le indicazioni parlamentari

I decreti legislativi, come anche il 23 del 2015, sono infatti atti delegati al governo dal Parlamento. Anche se il potere di legiferare spetta alle Camere, queste possono comunque delegarlo all’esecutivo, ma "soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti" e "con determinazione di principi e criteri direttivi".

Questo è accaduto anche per il Jobs act. Sul finire del 2014, il governo Renzi fece approvare al Parlamento una legge delega in materia di ammortizzatori sociali, politiche attive e riordino della disciplina dei rapporti di lavoro, e, nei primi mesi del 2015, furono emanati i decreti attuativi riferiti a quella delega.

Tuttavia, mentre la legge delega prevedeva la conservazione del «diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato», il testo del decreto attuativo renziano ha ulteriormente ridotto lo spazio per il rimedio reale. La reintegrazione è infatti prevista in caso di discriminazione e per (rarissimi) casi di licenziamento disciplinare irrogati in assenza del fatto materiale contestato, mentre i casi di nullità del licenziamento sono differenziati: la reintegrazione non è prevista per tutti i casi di recesso nullo, ma solo per quelli "espressamente previsti dalla legge".

Il vuoto di tutela per i lavoratori vittime di licenziamenti nulli

La Corte Costituzionale, allora, ha riconosciuto fondata la questione di legittimità, rilevando un eccesso di delega: il governo non ha rispettato i criteri direttivi posti dalla legge delega parlamentare, arrogandosi un potere normativo che non aveva.

La censura non è però solo di metodo, ma anche di merito. Con l’aggiunta dell’avverbio "espressamente", ora abrogato dalla Consulta, diverse ipotesi di licenziamento nullo venivano escluse non solo dal rimedio reintegratorio, ma dalla stessa attenzione dell’ordinamento. Si crea così un vuoto di tutela rispetto a gravi violazioni dei diritti dei lavoratori: senza prevedere esplicitamente altri rimedi, il decreto legislativo renziano esclude dalla reintegrazione i casi di licenziamenti nulli, come illegittimi recessi per malattia (senza superamento del periodo di comporto), o irrogati in violazione del blocco dei licenziamenti, o in violazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, o, più in generale, in caso di licenziamenti ritorsivi, nulli per motivo illecito determinante.

Il rimprovero della Corte Costituzionale appare particolarmente serio se si pensa che la nullità è la più grave forma di invalidità di un atto giuridico, che risulta viziato al punto da (dover) essere inefficace e che invece, nell’originale formulazione del Jobs act, continuava a produrre effetti e non meritava nemmeno una forma di tutela esplicita.

Il nuovo monito della Consulta: serve una riforma che tuteli i lavoratori

Non è la prima volta che il decreto legislativo 23/2015 incappa nelle censure della Corte costituzionale. La Consulta già nel 2018 aveva scardinato il meccanismo centrale delle tutele crescenti, rilevando come il sistema automatico di calcolo basato sulla sola anzianità di servizio fosse incostituzionale alla luce della "inidoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente".

La stessa critica era arrivata nel 2020 dal Comitato europeo dei diritti sociali di Strasburgo, che, su reclamo collettivo della Cgil, aveva dichiarato che, a causa della riforma del lavoro renziana, l'Italia viola il diritto di lavoratrici e lavoratori di ricevere un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione in caso di licenziamento illegittimo.

E se di recente le norme sui licenziamenti collettivi illegittimi non hanno ricevuto censure dalla Consulta, valutando altre parti del Jobs act, tanto nel 2020, quanto nel 2022, il giudice costituzionale ha avuto modo di criticare la frammentarietà e illogicità delle tutele risultanti dalle riforme più recenti, richiamando il legislatore al suo ruolo: occorre infatti che il Parlamento si impegni nel rendere migliore, e più rispettosa dei diritti dei lavoratori, la normativa in materia di tutele contro il licenziamento ingiustificato.

Anche con quest’ultima sentenza, che prevede la reintegrazione come rimedio logico per tutti i casi di licenziamenti nulli, e non solo per quelli espressamente previsti dalle leggi come tali, la Corte Costituzionale rinnova il suo monito: è dovere del legislatore "ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari".

Nonostante le ormai quasi costanti dichiarazioni di incostituzionalità da parte della Consulta, risulta tuttavia difficile nutrire qualche speranza nell’azione della classe politica attualmente al potere. Se il Jobs act fu votato dal Partito democratico renziano, la precedente riforma Fornero (non esente da vizi di incostituzionalità), che modificava l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, fu approvata da una maggioranza bipartisan, che comprendeva anche coloro che oggi governano (Giorgia Meloni compresa). Da un esecutivo come l’attuale, che non ha esitato a usare la retorica del lavoro per danneggiare i lavoratori, smontando i sussidi in caso di disoccupazione, calpestando il diritto allo sciopero, svuotando le proposte sul salario minimo legale, confondendo la flessibilità col precariato e rintuzzando la costante contrapposizione tra dipendenti e partite iva, risulta francamente difficile aspettarsi un impegno per il miglioramento delle tutele contro i licenziamenti ingiustificati.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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