Per il bel gioco è ancora presto, si direbbe stessimo parlando di un allenatore di calcio. Però in politica, come sul rettangolo verde, conta anche vincere. E ieri, comunque la si voglia girare, per Nicola Zingaretti è stata una vittoria: il Partito Democratico ha respinto Salvini a Stalingrado, confermando Stefano Bonaccini alla guida dell’Emilia – Romagna e si è sorprendentemente confermato primo partito sia nella regione rossa per eccellenza, sia in Calabria, nonostante la sconfitta.
Alzi la mano chi, un giorno dopo le elezioni europee dello scorso 26 maggio avrebbe immaginato un simile risultato, quando Salvini era forte del suo 30% e del doppio forno con i Cinque Stelle al governo e col centrodestra nelle amministrazioni locali. O ancora prima, quando il governo gialloverde era ben saldo sulle sue gambe e si parlava di un nuovo bipolarismo Lega-Cinque Stelle che avrebbe succhiato tutto il consenso a Pd e Forza Italia.
Tempo 8 mesi giusti giusti e ci ritroviamo il Pd al governo, e in crescita. I Cinque Stelle senza più Di Maio alla guida e col consenso minimi storici. La Lega costretta all’alleanza con Berlusconi e incapace di sfondare nell’ultima occasione utile per tirare una spallata al governo e andare al voto anticipato. Tre a zero per Zingaretti, senza possibilità di smentita.
E forse qualcuno storcerà il naso. Perché quella del governatore del Lazio è una leadership totalmente fuori dallo spirito del tempo, se lo spirito del tempo ha il nome e il faccione di Matteo Salvini. Zingaretti ha vinto delegando a Stefano Bonaccini la campagna elettorale, rinunciando anche a farsi vedere a Bologna nella notte della vittoria, rispettando il valore locale dell’appuntamento. E nella vittoria, ha rivolto il suo secondo pensiero alle sardine, ringraziate pubblicamente per il loro, decisivo, apporto. Trovatene un altro, di leader che non si prende mezzo merito dopo aver vinto una partita che fino a due giorni fa sembrava irrimediabilmente persa.
Il tratto normalizzatore di Zingaretti, la sua leadership morbida, a ben vedere, è presente in controluce in tutte le scelte fatte dal segretario democratico, dal giorno della sua elezioni. Ha immediatamente detto che non avrebbe corso come candidato premier, eliminando l’ultima vestigia del partito a vocazione maggioritaria di Walter Veltroni e Matteo Renzi. Ha accettato con riluttanza di formare il governo con i Cinque Stelle, governo in cui sono presenti tutte le correnti del partito tranne gli zingarettiani. Ha accompagnato all’uscita Matteo Renzi e Carlo Calenda, senza mai perdere il sorriso e senza alimentare polemiche autolesioniste. Ha riaperto ai fuoriusciti di sinistra, a partire da Vasco Errani e Pierluigi Bersani, che hanno fatto campagna elettorale pancia a terra per Stefano Bonaccini, come fossero due militanti qualunque. E nel frattempo ha dato spazio a quel che si muoveva fuori dal partito, rinunciando alla tentazione di fagocitarlo.
Oggi il Pd non è ancora quello del 40% di Renzi, e nemmeno quello del 33% di Veltroni, ma è l’unica alternativa possibile a Salvini e alla vittoria del centrodestra. È una forza che non fa parlare di se per quanto litiga al suo interno, ma che al contrario appare molto più coesa di quanto lo fosse anche solo 8 mesi fa. È una realtà che ha ricominciato ad aprirsi ai movimenti e alla società civile, che si chiamino Friday for Future o Sardine. È un movimento che nonostante la sconfitta dei socialisti europei, è riuscito a esprimere il presidente del parlamento europeo e il commissario all’economia. E, non dimentichiamolo, è una forza di governo che ha normalizzato una situazione che si stava facendo molto critica, per quanto riguarda i timori dei mercati e della Commissione Europea sulla sostenibilità dei nostri conti pubblici.
L’augurio è che tutto questo darà al Pd la forza di incidere ulteriormente sul destino del Paese, magari con un po’ di coraggio in più nelle scelte ambientaliste e nel superamento dei decreti sicurezza. Perché è vero, il bel gioco può attendere. Ma fino a un certo punto.