La premessa è sempre la stessa, ormai ci siete abituati: i risultati delle Elezioni Regionali dipendono in larga misura da dinamiche locali, dunque bisogna usare grande cautela prima di trarne lezioni di carattere generale. L’Abruzzo non fa eccezione: la scelta espressa dagli elettori va valutata nel peculiare contesto regionale e potrà essere analizzata nel dettaglio solo quando avremo a disposizione i dati completi. Ciò non significa che la vittoria del governatore uscente Marco Marsilio sia priva di significato per la politica nazionale e che possa essere derubricata a incidente di percorso del cosiddetto campo largo. Tanto più dopo l’esito delle Regionali in Sardegna e alla vigilia della lunga campagna elettorale delle Elezioni Europee. La vittoria del centrodestra è netta ed è una vittoria strettamente politica: hanno inciso le scelte sul territorio e il governatore ha saputo reggere anche sul voto d'opinione.
Soprattutto, questo risultato è gravido di conseguenze. Prima di tutto perché arriva in un momento particolare, con le forze politiche chiamate a valutare il peso e l’efficacia di nuove e vecchie alleanze, proprio quando le alleanze tecnicamente non servirebbero. Come è noto, infatti, alle Elezioni europee ognuno andrà da solo, alla ricerca di conferme o di riscatto. Dopo i casi Sardegna e Abruzzo, però, sarebbe un controsenso non inserire all’interno della propria offerta politica qualche indicazione più chiara sul percorso che si intende costruire e sui compagni di viaggio che si pensa di coinvolgere. Detto in parole povere: sarà difficile convincere gli elettori ad aderire a progetti politici senza una chiara direzione in termini di programmi, posizionamenti su temi di grande impatto e, conseguentemente, alleanze di lungo periodo. Non basta più il ritornello del "decidiamo di volta in volta in base al programma", tanto caro ai 5 Stelle. Allo stesso modo, si rivela tendenzialmente inefficace un ragionamento calibrato esclusivamente sulle candidature o dai fattori locali, linea scelta spesso dai centristi. Così come, infine, l'incapacità di seguire coerentemente e convintamente una strada, senza scegliere campo e prospettiva di lungo termine, ma provando a tenere insieme tutto, vecchio e nuovo, ha penalizzato ancora il Pd.
Serve una visione, un disegno più ampio e articolato, che sia precondizione di scelte specifiche, non esito finale.
Giorgia Meloni ha un progetto politico chiaro e ha la forza per perseguirlo. Tassello dopo tassello, nomina dopo nomina, provvedimento dopo provvedimento, un certo schema comincia a essere ricorrente: l'Italia come laboratorio di una nuova destra, capace di agitare la bandiera del sovranismo per attrarre il consenso populista e allo stesso tempo quella del pragmatismo e della conservazione per rassicurare liberali e moderati (in termini politici, si tratta di sussumere i progetti di Lega e Forza Italia). È un'operazione complessa, che gravita attorno alla presidente del Consiglio e pertanto necessita di robuste iniezioni di consenso personale ed elettorale. Anche per questo la battuta d'arresto in Sardegna è stata così pesante per Meloni e meno per i suoi alleati Salvini e Tajani. Appunto, la leader di Fdi deve stare attenta e non sottovalutare il malcontento degli alleati o le tensioni create dagli appetiti dei suoi fedelissimi. Deve saper dosare freno e acceleratore, perché il suo è un progetto complesso e lungo, che non può esaurirsi in qualche poltrona nei palazzi che contano. Tra cambiare il Paese e impantanarsi nei corridoi romani, il confine è sorprendentemente sottile.
Le Europee, in tale ottica, saranno centrali. Un'eventuale conferma del risultato delle politiche (che equivarrebbe a un'affermazione interna importante, chiariamolo fin da ora) proietterebbe Meloni in una dimensione nuova, da leader non solo di Ecr, ma di un movimento più ampio e ambizioso. Che per il momento avanza in molti Paesi, costringendo i progressisti sulla difensiva e i liberali alla trattativa, ma per il futuro ha l'ambizione di determinare i processi e guidare il cambiamento "verso destra" delle politiche europee.
La sensazione è che nel campo dell'opposizione non ci sia la consapevolezza della partita in gioco. Di quanto la differenza tra i due mondi sia sostanziale. Di quanto spiri forte il vento verso destra. La spinta iniziale di Schlein, verso una direzione di rinnovamento e di moderna radicalità nell'approccio ai temi e alle grandi questioni del nostro tempo, è stata rallentata dalle enormi resistenze interne al Partito democratico e, probabilmente, anche da scelte di compromesso. Conte è riuscito a posizionare il Movimento 5 stelle in un preciso spazio politico, non senza fatica. Ma la reticenza con cui affronta la questione della prospettiva a lungo termine del partito rischia di confondere gli elettori, invece che attrarli. Paradossalmente, l'unica certezza granitica, ovvero la sua volontà di porsi come alternativa a Meloni per la guida del Paese, è anche il maggior elemento di tensione con le altre anime della minoranza. Il vero problema è che da mesi sia Schlein che Conte si sottraggono alla domanda centrale: c'è la volontà di un lavoro a lungo termine, in grado di mettere sul tavolo un progetto politico comune tra Pd, M5s e gli altri partiti di sinistra?
Non lo sappiamo. E da mesi "non è il momento di pensarci". Preferiscono "il confronto sui programmi", decidere "in base alle candidature", valutare "caso per caso". Può andar bene o male, possono esserci fattori esterni a giocare a favore o contro. Tutto un po' improvvisato, insomma.