Utilizzare i risultati delle Elezioni Regionali come un termometro della situazione politica nazionale è sempre un azzardo. Soprattutto se decise da poche centinaia di voti. A maggior ragione se il test elettorale riguarda una Regione come la Sardegna, le cui dinamiche politiche sono peculiari e risentono di fattori di non semplice comprensione per chi non conosce il contesto locale. Nel corso di queste ultime settimane, però, il voto sardo ha assunto valore e peso, anche al di là della volontà degli stessi protagonisti della politica nazionale. La conformazione degli schieramenti, infatti, sembrava rispondere a una precisa idea di partizione del quadro politico nazionale: il centrodestra da una parte, dall'altra l’asse PD – M5s a guidare la coalizione di centrosinistra, ai margini il campo centrista, rappresentato da un nome noto ma con nessuna possibilità di vittoria.
Inoltre, appariva particolarmente interessante analizzare anche le dinamiche interne agli schieramenti. Nel centrodestra, Fratelli d’Italia aveva ottenuto di candidare Truzzu al posto di Solinas: il percorso era stato tutt’altro che lineare, ma in qualche modo rispondente a quel “riequilibrio” di peso e poltrone di cui da tempo si discute nella maggioranza. La proposta del centrosinistra invece era costruita sull’asse Conte – Schlein, con il supporto di Avs e di altre formazioni orientate a sinistra. Su Todde, che pure ha puntato molto sul proprio profilo “locale”, erano concentrate le attenzioni di chi crede fortemente nella sintesi tra il campo progressista del Pd e le pulsioni più radicali (e non sempre convergenti) del M5s e della sinistra (AVS e non solo). Infine, intorno a Soru, formalmente un candidato indipendente, si erano raccolte le diverse anime del campo centrista, divise (eufemismo) a livello nazionale dalle antipatie reciproche tra i leader, ma unite praticamente da tutto il resto. Inclusa la consapevolezza di non poter essere che marginali, almeno in un sistema di voto come quello di gran parte delle Regioni.
L'esito del voto sardo è dunque particolarmente interessante per le ripercussioni che avrà sul contesto politico nazionale. E per ciò che ci dice del momento che attraversa la politica italiana. Non fatevi ingannare dal margine ridotto: le considerazioni sarebbero state le stesse anche se a spuntarla fosse stato Truzzu.
Schlein e Conte contro Meloni, Salvini e Tajani contro Meloni
Dunque, stiamo andando verso un nuovo dualismo, da una parte la nuova destra egemonizzata da Fratelli d'Italia e dall'altra l'asse progressista-radicale frutto di un patto fra Conte e Schlein? Non esattamente, o meglio, non univocamente.
È indubbio che il risultato della Sardegna sia stato influenzato dalle divisioni nel campo del centrodestra. Truzzu era un candidato “in quota Meloni”, ma soprattutto una poltrona potenzialmente sottratta alla Lega. Da un punto di vista teorico avrebbe dovuto beneficiare del traino della presidente del Consiglio (la cui popolarità è ancora altissima, seppur in leggero calo), sul piano pratico hanno finito col pesare di più i mal di pancia di leghisti e indipendentisti, nonché il disimpegno dei portatori di voti forzisti. Il sindaco di Cagliari ha così perso i voti dei (tanti) delusi dall’amministrazione Solinas e, contemporaneamente, dei fedelissimi del governatore non ricandidato: un paradosso che si è concretizzato con il ricorso al voto disgiunto di un numero importante di cittadini sardi. La somma dei voti delle liste di centrodestra, infatti, avrebbe garantito una comoda vittoria a Truzzu e alla sua proposta politica. Così non è stato, "qualcuno" ha fatto scelte orientate e decisive direttamente sulla candidata avversaria.
È questo un segnale che Meloni non deve sottovalutare: l’unità del centrodestra non può essere un feticcio da mostrare sulle prime pagine dei giornali amici, ma deve trovare concretizzazione nella pratica politica. Anche a scapito dell’appetito dei suoi, se necessario.
Ha voluto fortemente la candidatura di Truzzu, convinta che bastasse il suo timbro per garantirsi una comoda vittoria. Invece ha perso, proprio a causa della sua scelta: il minimo che possa fare è assumersene la responsabilità e ricostruire un patto con gli alleati.
La presidente del Consiglio non può permettersi di aprire altri fronti, proprio perché ha un vaste programme e intende dargli attuazione, o almeno lottare per esso. Ma sarebbe un azzardo pensare di poter attuare quella trasformazione della società (e del governo) italiana nell'avamposto della "nuova destra europea" mentre i tuoi litigano per qualche poltrona e gli alleati ti boicottano più o meno esplicitamente.
Dall’altra parte, invece, c’era una candidatura solida. Todde ha condotto una campagna elettorale interessante, marcando la discontinuità con le esperienze del passato e puntando molto sulle ragioni “locali” dell’alternativa. Considerando la differenza con i voti di lista e il peso relativo del voto disgiunto, è ragionevole pensare che in tanti abbiano votato direttamente lei.
Schlein e Conte hanno avuto l’intelligenza di un sostegno “discreto ma convinto”, fidandosi della loro candidata. La segretaria del Pd, cannoneggiata quotidianamente dalla minoranza del partito e da analisti politici di diverse provenienze e sensibilità, porta a casa un altro successo e alza di una tacca l’asticella del “si può fare”. Si può vincere con i 5 Stelle, si può dare ambizione a un fronte progressista/radicale, si può fare a meno del “ma anche” come stella polare della gestione interna del partito, ma non rinunciando al realismo nella scelta delle alleanze. E se anche in Abruzzo le cose dovessero mettersi bene, Schlein affronterebbe con maggiore serenità una campagna elettorale per le Europee (il vero test sulla sua reggenza al Nazareno), nella quale dovrà compiere scelte dirimenti per il futuro del partito.
Conte, infine, porta a casa la prima governatrice regionale nella storia del Movimento 5 stelle. Il partito è in salute e con un livello di conflittualità interno tra i più bassi di sempre. Non esattamente bazzecole, se si pensa che solo quattro anni fa il M5s faceva registrare risultati da prefisso telefonico alle Regionali e si trovava senza capo politico, con le prime pagine dei quotidiani che profetizzavano (per la decima volta, almeno) la "scomparsa imminente" della creatura di Beppe Grillo. La Sardegna, test piccolo, lo ribadiamo, conferma che un'intesa col Pd e con la sinistra è quantomeno praticabile.
Segnali interessanti, ma non sufficienti per le ambizioni di Conte. Che punta a fare il leader del centrosinistra progressista e teme di restare schiacciato dalla polarizzazione Meloni – Schlein. Dunque, deve capire come e quando smarcarsi anche dalla segretaria del Pd, senza mettere in crisi l'alleanza e spingerla verso altri lidi, magari a causa della pressione della minoranza riformista. Operazione non semplice, come dimostrano i distinguo sulla politica estera (e non solo). In tal senso, sarà fondamentale capire se gli elettori premieranno la guida dell'ex presidente del Consiglio alle Europee, terreno notoriamente complicato per i grillini.
Per concludere, le alterne "fortune" del centro. Il risultato non positivo di Soru, oltre a evidenziare nuovamente come il “voto utile” sia un elemento importante nella scelta degli elettori, giunge in un momento particolarmente complesso per l’area centrista. Il progetto della grande casa liberale e moderata è rimasto sulla carta, scarabocchiato da liti e ripicche; il cammino verso le Europee si è rivelato più accidentato del previsto; i sondaggi confermano la poca attrattività delle creature politiche diretta emanazione dei leader, probabilmente che per le convergenze naturali con la linea del governo su temi di grande rilevanza pubblica. Peraltro, dato il contesto generale tendente alla polarizzazione, a mancare sembra essere proprio l'orizzonte, la ragion d'essere di un'area che come massima aspirazione si propone di essere l'ago della bilancia del quadro politico nazionale.