L’elezione del Presidente della Repubblica è il momento più alto della vita politica italiana, uno snodo fondamentale regolato da consuetudini e influenzato dalle strategie dei politici e dei decision maker. Mai come stavolta bisogna stare particolarmente attenti ai numeri, a quello che dicono e a come potrebbero cambiare nel breve volgere di qualche scrutinio. Perché il Parlamento che si appresta a indicare il successore di Sergio Mattarella ha configurazioni e dinamiche peculiari, di cui deve tener conto ogni leader che intenda condurre la partita del Colle. L'elezione del Capo dello Stato, insomma, sarà il risultato di tanti fattori convergenti, soprattutto se arriva a pochi mesi di distanza dal ritorno al voto e nel contesto di un governo sostenuto da una maggioranza ampia e molto disomogenea.
Il quorum per eleggere il Presidente e lo scenario attuale
Cominciamo dai freddi numeri. I grandi elettori sono 1009, il quorum per eleggere il Capo dello Stato per i primi tre scrutini è a quota 673 (i due terzi degli aventi diritto), dal quarto in poi scende a 505 (la maggioranza assoluta).
Il gruppo più numeroso è quello del Movimento 5 stelle, che può contare su 158 deputati e 74 senatori, cui aggiungere i delegati regionali. Le cronache politiche di questi giorni restituiscono l’immagine di una compagine molto frammentata, in cui pesano le dinamiche interne al partito e la difficoltà di Giuseppe Conte nel legittimare la propria leadership. Dall’entourage dell’ex Presidente del Consiglio si dicono sicuri di controllare “circa 200 parlamentari”, ma alla prova del voto potrebbero essere molti di meno (e attenzione alle prime 3 votazioni, con candidature che servirebbero ai capicorrente per contarsi e rendere chiaro il loro peso politico). Ai 5 Stelle guardano con grande attenzione sia i peones del centrodestra che stanno verificando le reali potenzialità della candidatura di Silvio Berlusconi, sia i pontieri del centrosinistra, che cercano soluzioni alternative “di area”, da mettere in campo nel caso in cui saltasse ogni ipotesi di accordo su nomi condivisi.
Il secondo gruppo in ordine numerico è quello della Lega, che può contare su 64 senatori, 133 deputati e una decina di delegati regionali. Come vi abbiamo raccontato, la situazione di Salvini è molto delicata, perché si trova a dover rispettare formalmente l’impegno preso con Berlusconi, ma allo stesso tempo a garantire la prosecuzione dell’attuale legislatura e a preparare la prossima, che con buona probabilità vedrà una chiara egemonia del centrodestra. Condizioni, queste ultime, che cozzano con l’elezione del Cavaliere: difficile, insomma, che la Lega sia compatta nel caso in cui ci si trovi di fronte a una prova di forza di Berlusconi al quarto scrutinio.
Il Partito democratico ha 94 deputati, 39 senatori e circa 20 delegati regionali. Letta per ora non si muove dal “nome condiviso” e ha preannunciato scheda bianca nelle prime tre votazioni, una non scelta che per il momento lo aiuta anche nella gestione dei gruppi. La sensazione è che stavolta non ci siano le condizioni per tentare una prova di forza ed eleggere un candidato di area, considerato il rischio di franchi tiratori, soprattutto fra i potenziali alleati (essenzialmente ciò che resta della coalizione del Conte II). Interessante, però, ragionare su cosa potrebbe accadere nel caso in cui i dem fossero chiamati a sostenere un candidato condiviso con Lega, Forza Italia e altre forze centriste, ovvero senza Fdi, M5s e sinistra.
Forza Italia si presenta con 79 deputati, 50 senatori e una decina di rappresentanti regionali. Nell’attesa di capire se il Cavaliere vorrà davvero rischiare al quarto scrutinio, non tutti i forzisti si preparano a votare scheda bianca ai primi scrutini. Il gruppo è tutt’altro che compatto e qualche capo corrente proverà a mandare un messaggio al leader nelle prime battute.
Il gruppo Misto è al solito la vera incognita di ogni snodo parlamentare: al momento al Senato conta 50 membri e alla Camera 65. Dentro c’è un po’ di tutto, a cominciare dai malpancisti del centrodestra: esponenti di gruppi che teoricamente rientrano nello schieramento che potrebbe sostenere Berlusconi, ma che devono ancora essere convinti. Tra gli elementi che peseranno: la prosecuzione della legislatura e le potenziali modifiche alla legge elettorale, questione di cui si dibatterà ancora nei prossimi giorni. Particolare attenzione bisognerà fare ai fuoriusciti del Movimento 5 Stelle che non hanno ancora trovato una collocazione definita negli altri gruppi parlamentari (i grillini hanno perso circa 100 parlamentari dal 2018 a oggi). Tranne qualche gruppo organizzato e tendenzialmente su posizioni ostili a compromessi, parliamo di singoli elettori o piccoli gruppi, che il tam tam mediatico vuole siano stati già agganciati dai peones, con promesse e rassicurazioni di diverso tipo.
Fratelli d’Italia ha 37 deputati, 21 senatori e almeno 5 delegati regionali. Meloni ha sottoscritto la nota congiunta del centrodestra per appoggiare Berlusconi, ma lavora allo scenario alternativo, consapevole che al momento si tratta di un tentativo piuttosto velleitario. Scontato il no a un’eventuale candidatura di Mario Draghi, Fdi potrebbe votare un candidato condiviso solo a condizione di non ravvisare pregiudiziali a un eventuale governo Meloni nella prossima legislatura.
Italia Viva ha 29 deputati e 15 senatori (qui assieme al Psi). Renzi ha fatto capire di non essere ostile ad appoggiare un candidato di centrodestra, purché si tratti di un nome spendibile. Difficile, molto difficile, attendersi una virata a sorpresa su Berlusconi; così come appare improbabile che Renzi possa dare una mano a Letta e Conte nel caso in cui si trovasse un nome di centrosinistra non gradito alla destra, sancendo la fine della legislatura. Non ci sono invece dubbi sul fatto che i renziani possano votare per Draghi.
Restano ancora gli oltre 30 rappresentanti di Coraggio Italia, componente di centrodestra che però non ha sottoscritto il documento comune a sostegno di Silvio Berlusconi. Ovviamente i leader Toti e Brugnaro non hanno pregiudiziali nei confronti del Cavaliere, ma necessitano di garanzie (la prosecuzione della legislatura, la possibilità di rientrare nel campo largo per le prossime politiche) che al momento non ci sono ancora. Partita complessa, ci aspettiamo novità nei prossimi giorni.
Difficile, infine, immaginare un ruolo attivo nella partita per gli eletti della sinistra (nel Misto al Senato e alla Camera, oltre che nel gruppo Liberi e Uguali che resiste a Montecitorio con 12 membri).
I numeri, gli schieramenti e i candidati
Andiamo a riepilogare in modo schematico e con qualche approssimazione i voti sulla carta a disposizione dei singoli partiti (non sono ancora ultimate le operazioni per la nomina dei rappresentanti regionali):
- Movimento 5 stelle 235
- Lega 210
- Partito democratico 150
- Forza Italia 140
- Fratelli d’Italia 65
- Italia viva 45
- Misto 115
- Coraggio Italia 35
- Altri 15
In linea teorica, dunque, il centrodestra può contare su circa 460/470 voti, cui aggiungere una ventina circa dal Misto: una eventuale candidatura di Silvio Berlusconi avrebbe bisogno di recuperare oltre quaranta voti, cui aggiungere un margine di sicurezza importante, in considerazione dei potenziali franchi tiratori e delle assenze. Neanche un accordo organico con Italia viva sembra bastare, ragion per cui la prova di forza del Cavaliere appare altamente improbabile. Più chance avrebbe un altro candidato di centrodestra con il via libera del PD, perché in quel caso si andrebbe ampiamente sopra i 505, anche senza il voto del Movimento 5 stelle. Attenzione però a non dare per scontata l’elezione in caso di accordi trasversali alle coalizioni, come testimoniano alcuni emblematici casi del recente passato (lo scomparso Franco Marini, stimato anche dagli avversari politici, si fermò a 521 alla prima votazione, malgrado il sostegno di un campo largo dal Pd a berlusconiani e montiani).
Un candidato gradito da Pd-Leu e M5s partirebbe da una base poco superiore ai 420/430 voti, che potrebbe salire a 450/470 con poco sforzo, ma non darebbero alcuna garanzia di elezione, nemmeno col conforto dei renziani (sempre per i ragionamenti di cui sopra). Serve un accordo politico anche in questo caso, ma finché resta in campo la candidatura del leader di Forza Italia non si può neanche cominciare a trattare. Il Mattarella bis sarebbe l'uovo di Colombo, ma il Presidente lo ha escluso più volte e non dovrebbe cambiare idea, salvo colpi di scena clamorosi (ovvero uno stallo prolungato).
Berlusconi, infine, potrebbe ottenere ugualmente un’uscita di scena soddisfacente facendo un passo indietro e favorendo l’elezione di un nome condiviso tra centrodestra e centrosinistra. È interessante, in tal senso, capire di che consenso stiamo parlando, ad esempio nel caso in cui emergesse la candidatura di Mario Draghi. In teoria, dovrebbero sfilarsi solo Fratelli d’Italia e le altre forze politiche attualmente all’opposizione, consentendo all’attuale Presidente del Consiglio di superare i 665 voti con cui fu eletto Mattarella ormai sette anni fa. Eppure, la balcanizzazione del M5s, le tante riserve interne alla Lega e la prevedibile reazione di Forza Italia ci spingono a pensare che ciò possa anche non accadere.