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Opinioni

Ecco perché sul diritto all’aborto la ministra Roccella sbaglia ancora

Tra confusione concettuale e interpretazioni semplicistiche di tesi femministe, la ministra Roccella, secondo cui quello all’aborto non sarebbe un diritto, dimostra di non conoscere (o di ignorare) i princìpi giuridici su integrità fisica, salute e interruzione volontaria di gravidanza.
A cura di Roberta Covelli
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Ancora una volta, la ministra della famiglia, Eugenia Roccella, dichiara che l’aborto non è un diritto, ribadendo una posizione giuridicamente discutibile e sostanzialmente sbagliata sull’interruzione volontaria di gravidanza. A confronto con Peter Gomez, nel programma La Confessione, che andrà in onda sul Nove questa sera, la ministra del governo Meloni, citando "le femministe storiche, le femministe della differenza", nega la natura di diritto all’aborto, specificando comunque che "c'è una legge che garantisce la libertà alla donna di scegliere anche fino in fondo". Sono frasi che mostrano molta confusione tra i concetti, qualche stratagemma retorico e un errore di fondo, che incide profondamente sulla cultura dei diritti, non solo di quelli riproduttivi.

Tra fallacie e interpretazioni creative: che cosa non torna nel discorso di Roccella

Partiamo dagli errori formali e dialettici, che già non dovrebbero esserci nel discorso pubblico di una figura istituzionale. Nelle sue dichiarazioni, la ministra Roccella confonde il piano etico e personale, relativo all’interruzione di gravidanza ("una questione di grandissime contraddizioni per le donne e lo è ancora oggi"), con il piano sociale e giuridico, negando all’aborto la natura di diritto sulla base della posizione di un gruppo che definisce di "femministe della differenza".

Già su questo è possibile muovere diverse obiezioni, a cominciare dal fatto che la natura di una posizione giuridica dipende dalle norme e dalla loro interpretazione, non dall’opinione di un gruppo, femminista o meno che sia. Sostenere che concetti giuridici regolati da una legge debbano essere interpretati secondo l’opinione di una corrente femminista è una forma di argumentum ab auctoritate, una fallacia logica tramite la quale si assegna validità a una tesi senza argomentarla, ma facendo leva sul valore di chi la sostiene, le "femministe storiche", secondo la ministra.

L’impressione, inoltre, è che quella della ministra Roccella sia una interpretazione quantomeno creativa di posizioni femministe ben più complesse. Nella dichiarazione di oggi, come anche nelle esternazioni precedenti, la ministra usa una locuzione precisa: le femministe della differenza sosterrebbero che l’aborto "esula dal territorio del diritto". Da questo, Roccella deduce che l’aborto non sia un diritto, usando un’ambiguità, un’equivocazione, cioè l’utilizzo di una stessa parola con significati differenti. La ministra confonde infatti il diritto oggettivo, ossia l’insieme delle norme, l’ordinamento o, più in generale, l’ambito giuridico, con il diritto soggettivo, ossia una posizione giuridica di vantaggio (una facoltà, un interesse, una potestà meritevole di tutela). È come confondere lo studio del diritto con il diritto allo studio.

Anche sulla maternità dell’abusata citazione delle "femministe storiche" da parte della ministra rimangono dei dubbi. Roccella non dà riferimenti bibliografici, non fa nomi: si può presumere che la posizione in questione sia stata espressa prima dell’introduzione della legge 194/1978 sull’interruzione volontaria di gravidanza, nel corso dell’elaborazione culturale e dialettica di principio. Discorsi simili si ritrovano ad esempio tra i documenti di alcuni gruppi femministi, come questo testo del Collettivo di via Cherubini, pubblicato nel 1973:

Per gli uomini l’aborto è questione di legge, di scienza, di morale, per noi donne è questione di violenza e sofferenza. Mentre chiediamo l'abrogazione di tutte le leggi punitive dell'aborto e la realizzazione di strutture dove sostenerlo in condizioni ottimali, ci rifiutiamo di considerare questo problema separatamente da tutti gli altri nostri problemi, dalla sessualità, maternità, socializzazione dei bambini, ecc.

Come si può notare, insomma, si trattava di posizioni decisamente più complesse della semplificazione della ministra, che richiedevano rivendicazioni globali e relazionali contro una concezione della sessualità di stampo maschilista.

La ministra Roccella ha torto anche giuridicamente

Le diverse posizioni femministe, però, possono certo aver contribuito al dibattito sulla stesura della legge, e tuttora possono stimolare l’elaborazione culturale, ma non cambiano quel che è previsto dal diritto: l’aborto, secondo le condizioni previste dalla legge 194/1978, è un diritto.

Per negare questa verità si fa spesso leva sul fatto che la 194 non espliciterebbe il diritto all’aborto, limitandosi ad affermare, all’articolo 1, il "diritto alla procreazione cosciente e responsabile".

Se seguissimo questo ragionamento, dovremmo ritenere di non aver diritto alle prestazioni mediche di qualunque tipo, dall’appendicectomia alla cataratta, per il semplice fatto che non esiste una norma che definisca questi interventi chirurgici come diritti. Il fatto che l’interruzione volontaria di gravidanza sia una prestazione medica, al pari di altri atti terapeutici o diagnostici, e che quindi non sia definita esplicitamente come diritto, non significa che non se ne abbia diritto: così come non è enunciato un diritto alla colonscopia, ma è necessario garantirla per il diritto alla salute, così non è (o, meglio, non sembra) esplicitato un diritto all’interruzione volontaria di gravidanza, ma è necessario garantirla per il diritto alla procreazione cosciente e responsabile.

Ma poi davvero la legge 194/1978 non definisce l’aborto come diritto? E davvero l’(eventuale) assenza di questo riferimento nella legge in questione esclude che l’IVG possa essere un diritto? La risposta a entrambe le domande è no.

Per quanto riguarda la legge 194/1978, oltre alla locuzione sulla "procreazione cosciente e responsabile", ci sono altri due punti da cui si deduce la natura di pretesa legittima (e tutelata) della pratica abortiva. L’articolo 5, alla luce del riconoscimento del valore sociale della maternità, prevede che consultori e medici si confrontino con la donna sulle circostanze sulla base delle quali intenda richiedere l’interruzione di gravidanza, informandola sui diritti e sul sostegno sociale a cui potrebbe far ricorso. In diversi punti della norma è però ribadito il principio secondo cui ogni domanda, consiglio o indicazione debba porsi "nel rispetto della dignità e della libertà della donna", che resta l’unica a poter decidere sul ricorso o meno all’interruzione di gravidanza. A confermare questo diritto della donna sta anche l’articolo 8, che prevede che il certificato e il documento firmato dal medico (e dalla donna) "costituiscono titolo per ottenere in via d’urgenza l’intervento e, se necessario, il ricovero". E un titolo non è altro che "l’atto o il fatto giuridico sul quale si basa un diritto, o più genericamente la causa, la ragione giustificatrice dell’appartenenza di un diritto, o anche il modo con cui si è acquistato".

Se pure non bastassero le argomentazioni sulla legge 194/1978 e sui diritti che essa prevede, la configurabilità di un diritto all’aborto si potrebbe dedurre dai princìpi nazionali, sovranazionali e internazionali in materia di integrità personale e diritto alla salute, che hanno portato anche a due censure che l’Italia ha ricevuto proprio su questo tema.

Nel 2016, su ricorso della Cgil, il Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio UE ha evidenziato come la quota di personale sanitario obiettore di coscienza sia alta al punto da mettere a rischio l’effettività del diritto all’aborto sicuro, e che quindi l’Italia viola l’articolo 11 della Carta sociale europea, che afferma che "ogni persona ha diritto di usufruire di tutte le misure che le consentano di godere del miglior stato di salute ottenibile". L’anno successivo è stato il Comitato dei diritti umani dell’Onu a giungere alle stesse conclusioni.

Anche l’OMS collega l’aborto sicuro al diritto alla salute, precisando il diritto di tutti gli individui di aver accesso a cure mediche di qualità, incluse le cure in caso di interruzione di gravidanza: "la mancanza di accesso all’interruzione di gravidanza sicura, tempestiva, efficace e dignitosa mette a rischio il benessere non solo fisico, ma anche sociale e psichico, di donne e ragazze".

L'impatto politico del discorso della ministra della famiglia

Di fronte a questa unanimità giuridica si staglia però l'impegno della destra estrema nel limitare il diritto d'aborto, come avvenuto in Polonia e in Ungheria, e come, quanto a effettività, avviene anche in Italia, a prescindere dal colore politico.

Al di là del discorso sull'interruzione volontaria di gravidanza, tuttavia, le dichiarazioni di Eugenia Roccella risultano problematiche anche da un punto di vista politico e istituzionale. Attraverso la costante ripetizione di poche semplici frasi, nette nella loro affermazione, avulse dalla complessità in cui erano originariamente immerse, pericolose per le loro implicazioni, passa un messaggio che oggi nega il diritto all'aborto ma che potenzialmente può riguardare ogni diritto: quello allo sciopero, che non è esplicitamente definito dall'articolo 40 della Costituzione, o lo stesso diritto alla salute attraverso la sanità pubblica, la cui gratuità è garantita testualmente, dall'articolo 32, solo agli indigenti.

La realtà giuridica e sociale è ovviamente più complessa di così: esistono dei princìpi fondamentali in base ai quali dovremmo continuare a interpretare le norme, ponendole sempre al servizio delle persone e dei loro diritti. Non corriamo allora, o almeno non nel breve termine, un rischio di soppressione dei diritti, esiste però il rischio di un semplicismo retorico che porta a modalità primitive di interpretazione della realtà, giuridica o sociale che sia. Che la ministra della famiglia riesca a ribadire costantemente una stessa affermazione, che implica lo spostamento concettuale di una pratica da diritto a libertà di scelta, ossia da una pretesa azionabile a una possibilità di cui gode solo chi ci riesce, è una prassi inquietante, che è il caso di contestare, tanto con gli argomenti giuridici, quanto con l'opposizione politica.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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