Sono state depositate ieri le motivazioni con cui la Corte Costituzionale, cinque settimane fa, ha dichiarato incostituzionale una parte dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, così come modificato dalla riforma Fornero. I giudici costituzionali, rispondendo a una questione sollevata dal Tribunale di Ravenna, hanno censurato una parte della norma relativa ai rimedi contro il licenziamento economico ingiustificato: è infatti incostituzionale il secondo periodo del settimo comma che prevede che, quando il giudice accerta la manifesta insussistenza del fatto alla base del licenziamento per motivo oggettivo, "possa" e non "debba" applicare la tutela reintegratoria. Ma, per capire meglio, è il caso di fare un passo indietro, a dieci anni fa.
Come funziona la disciplina dei licenziamenti dopo la Riforma Fornero
Prima dell’avvento del governo Monti, il diritto del lavoro prevedeva, come tutela contro il licenziamento ingiustificato, la reintegrazione, prevista per le aziende con più di 15 dipendenti dal testo originale dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Se un lavoratore veniva licenziato poteva fare ricorso e, se il licenziamento si fosse rivelato ingiustificato, il giudice avrebbe ordinato la reintegrazione del lavoratore, a meno che il lavoratore stesso non avesse preferito un risarcimento sostitutivo della reintegrazione. Con la riforma Fornero, la legge 92 del 2012, il sistema cambia e il rimedio da uno solo si quadruplica, con diverse forme di tutela a seconda del tipo di licenziamento intimato, sempre che, ovviamente, il licenziamento si riveli ingiustificato. Senza dilungarsi troppo nei dettagli, basti sapere che, oltre alla reintegrazione con indennità risarcitoria forte (più di cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto) e a quella attenuata (in cui l’indennità risarcitoria è di massimo dodici mensilità, detraendo quel che il lavoratore ha guadagnato o avrebbe potuto guadagnare nel frattempo), sono previsti casi in cui al lavoratore spetta solo la tutela indennitaria, forte (tra 12 e 24 mensilità) o debole (tra 6 e 12 mensilità). Il Jobs act ha poi complicato ulteriormente lo scenario, prevedendo una tutela ancor più debole per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 (e ampiamente censurata dalla Corte Costituzionale), ma per i lavoratori assunti in precedenza vale ancora l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, così come modificato dalla legge Fornero 92/2012.
I licenziamenti economici e la questione di costituzionalità
Ma su che cosa si è espressa la Consulta? Il Tribunale di Ravenna ha sollevato la questione di legittimità costituzionale sul settimo comma, secondo periodo, del nuovo articolo 18, cioè sul licenziamento per (in)giustificato motivo oggettivo e sulla possibilità che il giudice applichi la tutela reintegratoria attenuata invece della tutela indennitaria forte. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è il cosiddetto licenziamento per ragioni economiche, cioè quello che avviene per motivi che non dipendono dal lavoratore ma che riguardano l’impresa, cioè quando si modifica l’organizzazione produttiva e un particolare posto di lavoro non rientra più nel sistema aziendale. È onere del datore di lavoro provare in giudizio che il motivo oggettivo è giustificato, dimostrando quindi che ci sono modifiche nell’organizzazione aziendale, che in ragione di tali modifiche il posto di lavoro del lavoratore licenziato è stato soppresso e che l’azienda ha cercato di impiegare in maniera alternativa il lavoratore (il cosiddetto obbligo di repechage). Ma che cosa succede se si scopre che il giustificato motivo oggettivo alla base del licenziamento non c’è? Il secondo periodo del settimo comma dell’articolo 18, cioè quello su cui la Corte Costituzionale si è espressa, prevede due possibilità: nella generalità dei casi, la tutela è indennitaria forte, cioè la risoluzione del rapporto di lavoro e il pagamento di una somma risarcitoria tra dodici e ventiquattro mensilità, ma, nell’ipotesi "in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo", il giudice "può altresì" applicare la tutela reintegratoria, sebbene con l’indennità più bassa, di massimo dodici mensilità.
Se il fatto non sussiste è irragionevole che la reintegrazione sia discrezionale
Il nodo centrale della questione di legittimità è proprio in quella possibilità, che per le altre ipotesi di licenziamento non c’è: se infatti un lavoratore viene licenziato per un’accusa disciplinare che poi si riveli insussistente, il giudice condanna il datore di lavoro alla reintegrazione, se invece il lavoratore viene licenziato per una modifica organizzativa che non c’è stata, il giudice può applicare la reintegrazione ma può anche non farlo. La situazione dei due lavoratori è identica nei presupposti, perché entrambi sono stati licenziati ingiustamente per un fatto che non sussiste, ma il lavoratore espulso per un’inesistente ragione economica rischia di non ottenere la tutela più incisiva, per via della facoltatività assegnata dalla legge.
Per limitare il potere discrezionale del giudice e trovare una logica alla riforma ("nel tentativo di scongiurare le incertezze applicative che il testo della legge avrebbe ingenerato", commenta la Corte), la giurisprudenza di legittimità ha escluso la reintegrazione nei casi in cui risultasse troppo onerosa rispetto all’organizzazione dell’azienda successiva al licenziamento (ingiustificato). Questo orientamento, però, pur compreso dalla Consulta, viene censurato: "il mutamento della struttura organizzativa dell’impresa che preclude l’applicazione della tutela reintegratoria è riconducibile allo stesso imprenditore che ha intimato il licenziamento illegittimo e che può dunque prestarsi a condotte elusive".
La Consulta ribadisce i principi su leggi e lavoro
Nel dichiarare incostituzionale la parte della legge in cui si prevede la facoltatività, e non l’obbligatorietà, del rimedio reintegratorio al ricorrere dello stesso presupposto di insussistenza del fatto, la Consulta ribadisce i principi che reggono l’ordinamento democratico, da un lato, e il diritto del lavoro, dall’altro.
Innanzitutto, se è vero che chi scrive le leggi ha il potere discrezionale di prevedere differenti forme di trattamento per diverse situazioni, è pur vero che queste scelte devono essere ragionevoli, e che, in questo caso, alla stessa circostanza deve corrispondere lo stesso rimedio. Peraltro, la Corte Costituzionale fa notare come la facoltatività della scelta reintegratoria da parte del giudice sia irragionevole anche rispetto alla stessa riforma Fornero che l’ha introdotta: se infatti la legge 92/2012 aveva l’intento "di circoscrivere entro confini certi e prevedibili l’applicazione del più incisivo rimedio della reintegrazione", commenta la Corte, l’ulteriore elemento di discrezionalità che porta il giudice a complesse valutazioni sulle esigenze dell’impresa riduce il proposito di semplificazione della disciplina, rendendo il sistema di tutela più incerto di quanto non fosse prima.
D’altra parte, richiamando principi già affrontati in precedenti sentenze, la Corte costituzionale ricorda come l’esercizio arbitrario del potere di licenziamento, specie quando usa a pretesto fatti inesistenti, “lede l’interesse del lavoratore alla continuità del vincolo negoziale e si risolve in una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata la persona del lavoratore”. Anche per questo, il licenziamento deve essere accompagnato da “doverose garanzie” e “opportuni temperamenti” (così la sentenza della Corte Costituzionale 45/1965), come ad esempio il principio di necessaria giustificazione del recesso da parte del datore di lavoro (come ricordato dalla Consulta con la sentenza 41/2003): il lavoratore ha infatti diritto di “non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente” (come ribadito nella sentenza della Corte Costituzionale 60/1991). I rimedi contro il licenziamento ingiustificato, allora, come già sottolineato in altre occasioni, pur potendo essere discrezionalmente graduati dal legislatore, devono poter essere dissuasivi e compensare il disvalore del licenziamento ingiustificato, con la ragionevolezza che la Consulta non ha trovato nella parte della riforma Fornero che, per questo, ha censurato.