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Opinioni

E Renzi che fa?

L’ex Presidente del Consiglio continua a ripetere di essere fuori dai giochi e di voler star zitto per due anni. Le chiavi del PD, però, le ha ancora in mano ed è lui ad aver scelto la linea dell’immobilismo. Che serve a uno scopo fondamentale: spingere Di Maio tra le braccia di Salvini.
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Lui continua a ripetere che si terrà “alla larga, alla larghissima” dalla discussioni su nomine e accordi, che starà “zitto per due anni”, che non conta più nulla e che ora tocca a Martina e agli organismi dirigenti. Il problema è che la versione “senatore semplice” di Matteo Renzi non è credibile, almeno non in questo contesto. L’ex Presidente del Consiglio, infatti, prima di dimettersi da segretario ha determinato la linea del partito nel momento più delicato della sua storia, consegnandolo poi nelle mani di quello che era il suo vice, Maurizio Martina, il quale potrebbe essere confermato anche dopo l’assemblea nazionale di metà aprile. La classe dirigente che ha rovinosamente perso le elezioni portando il PD al minimo storico ha ancora saldamente in mano le redini del partito e un ulteriore segnale di immobilismo lo ricaveremo dalle nomine dei capigruppo a Camera e Senato, che dovrebbero essere Lorenzo Guerini alla Camera (edit: è stato scelto Delrio) e una fra Fedeli, Marcucci e Pinotti al Senato (edit: la scelta è caduta sul renzianissimo Marcucci), e dalle vicepresidenze delle Aule, per le quali sono in ballo i nomi di Giachetti, Rosato e Marcucci.

Coloro che sono stati eletti come renziani, insomma, hanno in mano il partito. Il punto è capire cosa rimane del renzismo, chi decide adesso e in che ottica vengono prese le decisioni. Non è cosa di poco conto, perché il Paese è a uno snodo decisivo, che potrebbe condizionare la politica italiana per i prossimi anni.

Dopo una sconfitta come quella subita, il posto del Pd è all’opposizione. Tanto più che i vincitori sono due poli oggi fusi tra loro programmaticamente e culturalmente […] Ascolteremo con la consueta attenzione quando andremo alle consultazioni. Abbiamo la massima fiducia e rispetto per il lavoro difficile che dovrà fare Mattarella, ma il compito di dirigere il Pd non può essere scaricato sul capo dello Stato”. Così Matteo Orfini ha recentemente ribadito la linea del partito, approvata peraltro all’unanimità nella Direzione nazionale post – voto. Una linea che non prevede abboccamenti con le altre forze politiche e che dovrebbe portare a respingere ogni appello alla “responsabilità”, almeno se declinata come appoggio diretto o indiretto alla nascita di un governo politico di una delle forze politiche che hanno vinto le elezioni. Nè con i 5 Stelle, né con il centrodestra a trazione leghista, insomma. È la scelta dell’immobilismo, della rinuncia a ogni strategismo per occupare posizioni di potere, del "no garbato ma deciso" da consegnare a Mattarella, dell’opposizione come collocazione naturale del PD dopo la batosta del 4 marzo.

Finora una linea di questo tipo ha facilitato (o smascherato, a seconda della tifoseria cui si appartiene) la convergenza fra Lega e MoVimento 5 Stelle, che si è tradotta nell’avvio di un percorso che potrebbe portare alla formazione di un governo di compromesso, che duri il tempo della revisione della legge elettorale, della legge di stabilità e di qualche altro provvedimento considerato “urgente”. Nei piani nemmeno troppo nascosti dei democratici, l’Aventino dovrebbe facilitare questo passaggio, legittimando il Partito Democratico come sola opposizione, in Parlamento e nel paese. E, cosa non da poco, regalando tempo.

Il tempo è in effetti la prima cosa di cui il PD ha bisogno: non sfugge a nessuno che nuove elezioni a strettissimo giro (settembre o novembre) sarebbero una catastrofe, con l’ulteriore prevedibilissimo avanzare grillino e il definitivo collasso della nebulosa forzista a beneficio di Salvini. L’avvio della legislatura, anche con un governo che duri un annetto o due, dunque, regalerebbe al PD due condizioni fondamentali per il percorso di rinascita che si immagina: il tempo e il nemico intorno cui compattarsi. Troppo vago lo spettro del “populismo” di cui essere argine: il nemico perfetto sarebbe un governo sostenuto dalla destra egemonizzata dalla Lega e dall’ala destrorsa del MoVimento 5 Stelle. In effetti, se c’è una caratteristica del renzismo è quella di agitare e creare il conflitto come strumento per aprirsi strade altrimenti blindate, secondo la vecchia logica dell’individuazione del nemico come meccanismo di aggregazione del consenso, di mobilitazione dell’opinione pubblica, di continua creazione di dualismi.

I bene informati raccontano di un Renzi furioso con Napolitano, che lo ha bacchettato duramente in Senato, dopo aver sostenuto, avallato, caldeggiato e finanche suggerito le mosse che lo hanno portato nel vicolo cieco del calo di consensi personali: la sostituzione di Letta a Chigi, il patto del Nazareno, la riforma della Costituzione con Mattarella. Ma i rapporti sono tesi anche con Mattarella, uno dei registi dell'operazione Gentiloni (pagata carissimo alle urne, nella lettura dell'ex segretario democratico), che ora vorrebbe che il PD favorisse la nascita di un governo di scopo, magari senza i 5 Stelle, ritenuti non affidabili al 100%.

Non fare nulla, però, è linea dal respiro corto, nel senso che non è possibile prevedere come evolverà la situazione e quali saranno le scelte delle altre forze politiche. Non fare nulla non è quello che hanno chiesto gli elettori del PD, ripetono da giorni alcuni dirigenti “storici” del partito. E, aggiungono, la complessità della situazione politica fornisce enormi opportunità a chi sia in grado di muoversi non avendo nulla da perdere. Il Senato, ad esempio, spiegano, “poteva tranquillamente andare a uno dei nostri con l’appoggio dei 5 Stelle, in cambio di uno scontatissimo voto a Roberto Fico”. Ma una scelta di questo tipo avrebbe incrinato l’asse Di Maio – Salvini, che in casa democratica considerano fondamentale, anche per il proprio futuro. Certo, si dirà, davvero il PD è giunto al punto di augurarsi che si consumi il matrimonio fra la destra populista e il partito "fieramente populista"?

Ecco, Renzi ora ha bisogno di tempo, per ricostruire la sua immagine, coltivare la propria community personale e capire, per dirla con Orfini, “che posizionamento avere per tornare a vincere”. Lo spazio politico che interessa non è più quello “a sinistra” ma quello che andrebbe ad accogliere i moderati in uscita da Forza Italia e quelli “spaventati” dall’unione delle forze populiste e antieuropeiste. Il bacino di riferimento sarebbe più o meno quello individuato da Gozi in una intervista al Foglio: “Io non vedo un grande futuro nell’estrema destra oltre l’egemonia salviniana. Ci sono tanti elettori di centrodestra che non vogliono cadere sotto quell'egemonia. Sono moderati, europeisti. Credo che il filo rosso dell’europeismo, dell’Europa sovrana contro il sovranismo italico, le riforme e la lotta contro la disuguaglianza siano cose importanti”. Una forza centrista, di chiara impronta europeista e “macroniana”, progressista sul piano dei diritti civili, che si muova all’interno di schemi consolidati sul versante economico e che ripensi l’organizzazione del partito, superando la struttura territoriale in favore del concetto di “community”: a grandi linee è questa la suggestione renziana, la traccia sulla quale si lavorerà nei prossimi mesi.

Renzi, però, sa che il suo lavoro può continuare benissimo all’interno del Partito Democratico, che una “En Marche italiana” partendo da zero sarebbe un azzardo e che la scelta più sicura è quella di “ripensare il partito” senza cederne il controllo. Anche perché uscire ora dal partito significherebbe favorire la ricomposizione con Liberi e Uguali, di fatto mettendosi in una posizione minoritaria all’interno del campo alternativo a quello populista. Quello cui si lavora è invece il passaggio opposto: la naturale fuoriuscita delle attuali minoranze interne orientata alla creazione di un nuovo soggetto di centrosinistra, che potrebbe essere più rapida nel caso in cui la fase congressuale del PD fosse egemonizzata dalla componente renziana.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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