C’è un che di surreale nella strategia del silenzio adottata da Claudio Durigon, sottosegretario all’Economia del governo Draghi al centro del caso politico del momento. Una strategia consolidata, che l’esponente leghista mette in atto da mesi, a cominciare da quando le inchieste giornalistiche di Repubblica, Domani e Fanpage avevano sollevato dubbi e perplessità sulle sue relazioni e sul composito fronte dei suoi sostenitori a Latina. E che è rimasta tale di fronte alle evidenze dell’inchiesta Follow The Money di Fanpage.it sui legami fra Lega e UGL, nel corso della quale abbiamo mostrato un filmato in cui il “padre di quota 100” ostentava serenità sulle inchieste riguardanti il partito di Matteo Salvini perché “il generale Zafarana lo abbiamo messo noi”. Lui non parla, non spiega, non rettifica, magari manda qualche lettera di diffida, ma nulla che somigli a un chiarimento, a una spiegazione di senso. Non una nota ufficiale, non una conferenza stampa, non un intervento in Aula, nulla. Eppure, le domande cui dovrebbe rispondere sono tante e piuttosto rilevanti.
Un silenzio che sta proseguendo in queste ore, malgrado ora a chiedere le sue dimissioni sia un fronte piuttosto consistente, addirittura maggioritario nel Governo e nel Parlamento. Già, perché a spingere affinché Durigon faccia un passo indietro, oltre a M5s, L’Alternativa c’è e Sinistra Italiana (che da mesi ne chiedono l’allontanamento dall’esecutivo in relazione all’inchiesta di Fanpage.it), adesso ci sono anche il Partito Democratico e l’altra componente di Liberi e Uguali, che chiedono a Draghi di trarre le conseguenze dell’ultima incomprensibile uscita del suo sottosegretario, secondo cui sarebbe opportuno che il parco Comunale di Latina, ora dedicato alla memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, venga rinominato parco Arnaldo Mussolini, fratello del dittatore Benito. Per inciso, anche in questo caso, Durigon tace. Come fa il leader del suo partito, del resto, ancora incapace di dirci con chiarezza e senza tentennamenti o ambiguità se lui, la Lega e appunto Durigon sono antifascisti.
Insomma, siamo di fronte a un sottosegretario che non ritiene necessario rispondere né ai giornalisti, né ai suoi colleghi in Parlamento, né ai compagni di governo, né ai cittadini. Ed è lecito pensare che tale mancanza di rispetto delle più basilari prassi democratiche sia di per se stessa già una ragione sufficiente per chiederne le dimissioni. Perché il concetto di accountability, che riguarda il dovere dei politici di rendere conto delle loro azioni e dichiarazioni, è troppo prezioso per essere mortificato in questo modo. Un politico che rifiuta di rispondere ad accuse circostanziate e precise come quelle che riguardano Durigon è evidentemente un politico che non ha compreso il valore del suo ruolo, che si fonda su un patto con i cittadini che non è mai una delega in bianco. C'è una enorme questione di opportunità politica e di rispetto delle regole democratiche che non possiamo far finta di non vedere.
Perché un Presidente del Consiglio che accetta di buon grado circostanze del genere (e che addirittura prova a coprire eventuali responsabilità con un intervento in Aula goffo e lacunoso), nei fatti, sta dicendo ai cittadini che di fronte al rischio di una crisi politica interna alla maggioranza cade qualunque ragionamento sull'etica pubblica e si possono tollerare silenzi e zone d'ombra. Che va bene tutto purché si preservi la stabilità della maggioranza. Che non servono spiegazioni, che giornalisti e cittadini dovrebbero accontentarsi di un generico "vuolsi così cola dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare".
E non sta assolvendo al suo ruolo neanche un leader come Salvini, che continua a manifestare una generica solidarietà a un esponente di primo piano del suo partito, senza sentirsi in dovere di chiarire a iscritti e militanti i contorni di vicende oscure e senza scusarsi per non aver preso immediatamente le distanze, visto che era presente al comizio, dalla richiesta di riesumare una pagina buia del nostro passato, con l'intitolazione a un esponente della famiglia Mussolini del parco Falcone-Borsellino (che peraltro il leader leghista cita ogni volta che ne ha la possibilità…).
In casi del genere è comune leggere frasi del tipo “in qualsiasi altro Paese europeo Durigon sarebbe già a casa” ed è probabilmente vero, considerando che l’accountability viene presa molto sul serio, come forma minima di trasparenza dei processi decisionali e della rappresentanza dei cittadini. Ecco, sarebbe anche il momento di dire che noi possiamo essere un “paese come gli altri” e che la pretesa che un politico renda conto del proprio operato alla stampa e ai cittadini non è una generica pulsione populista, ma la base della democrazia rappresentativa. E sarebbe ora che anche Draghi ne traesse le conseguenze.