Lo avevano scritto un po' tutti, nel momento in cui l'allora Sindaco di Firenze Matteo Renzi decise di staccare la spina al Governo Letta e di "convincere" Giorgio Napolitano della necessità di un cambio di passo: la vera partita si giocherà su lavoro, economia e riforme istituzionali. Terreni sui quali Renzi non avrebbe più potuto bluffare e, soprattutto, del tutto "indipendenti" dalla volontà popolare o da ogni tipo di legittimazione politica (che si tratti del plebiscito delle primarie del Pd o delle Europee). Perché le cifre non mentono, perché la pazienza dei veri interlocutori internazionali non è a tempo indeterminato e perché le cambiali firmate nel momento della staffetta, prima o poi sono destinate a scadere.
Ne scrivevamo a proposito della possibilità che Renzi "facesse la fine" del suo predecessore: difficile pensare di uscire dal pantano con i brodini caldi che hanno contraddistinto l’azione del Governo Letta; serve una cura forte, servono idee radicali e non compromessi al ribasso; serve forse la macchina da demolitore, non il bilancino del farmacista. La questione di fondo è sempre la stessa: oltre al piglio decisionista, oltre alla capacità di comunicare, oltre ai tatticismi e agli equilibrismi di palazzo, Renzi ha in testa un progetto coerente e sensato per cambiare il Paese? O ha tristemente ragione Walter Tocci quando ricorda che "la crisi italiana non è istituzionale, è politica e dipende dalla mancanza di progetti chiari e distinti" e che per ora "il vuoto è riempito solo dalle illusioni mediatiche"?. A poco serve il piagnisteo sulla necessità di dotare il Governo di più poteri, sul superamento del bicameralismo perfetto, sulla retorica del fare (che poi somiglia tanto, troppo ad uno degli aspetti caratterizzanti della bolla berlusconiana). In assenza di "idee", di una direzione chiara, di una visione, questi sono problemi finti, costruiti ad arte. E Renzi lo sa benissimo. Così come sa che gli 80 euro, ad esempio, o si inseriscono in un progetto più ampio di redistribuzione del reddito (verso la "giustizia sociale", diremmo con buona dose di esagerazione), oppure restano misura propagandistica e col fiato corto. Di misure una tantum, di politiche dell'emergenza, insomma, si muore.
Si dirà: ma fin dalle prime conferenze stampa Renzi ha mostrato un piano organico di riforme. Certo, per poi affogare nella logica degli annunci, degli spot, delle semplificazioni e delle tempistiche: nell'ossessione di mostrarsi come l'uomo del fare tutto e in fretta. Si dirà: ma le condizioni economiche ed i conti pubblici sono quello che sono. Certo, nessuno lo nega: ma allora che senso ha un certo tipo di comunicazione mediatica, l'ostentazione di un ottimismo senza fondamento, il ricorso alla retorica della speranza e, ancora, del cambiamento? Si dirà: ma è la necessità del compromesso con le altre forze politiche a frenare Renzi. Può darsi, ma erano condizioni note a Renzi: davvero pensava di rivoluzionare il Paese governando con i soliti noti? Sul serio pensava che una classe politica si auto – rottamasse? Si dirà: ma per cambiare un Paese serve tempo, pazienza e stabilità. Forse, ma a piazzare l'asticella delle aspettative è stato Renzi stesso, peraltro creando muri e steccati (i gufi, i rosiconi, "noi e loro") ed un clima da cambiamento epocale e senza precedenti.
Piegato dai dati economici, con l'incubo dell'abbraccio mortale con Berlusconi sulle riforme istituzionali, pressato dalle istituzioni europee e stuzzicato dalla stampa internazionale, ora il Presidente del Consiglio è chiamato a scoprire le carte. È finito il tempo di bluffare e di rimandare lo showdown: Renzi provi a cambiarlo questo Paese, non si limiti a buttare (ancora) la polvere sotto il tappeto. Se ne ha la forza, ovviamente.